Buon compleanno, mitico, unico, Barry Lyndon! di Francesco Della Torre

Stanley Kubrick è nettamente il più grande regista di tutti i tempi e Barry Lyndon costituisce (insieme con 2001 e Arancia Meccanica) il suo apice creativo. Dopo le riedizioni del 1997 di Arancia Meccanica e quella ovviamente targata 2001 dell’Odissea, la distribuzione italiana (in questo caso la Cineteca di Bologna), per il 40° anniversario della sua uscita, omaggia anche questa magnifica creatura con la versione restaurata e distribuita in lingua originale, dando la possibilità anche alle generazioni successive di apprezzare i massimi capolavori della settima arte dove meglio si può fruire una visione: in sala. Tratto da un libro di William Thackeray del 1844, piuttosto insignificante a detta di chi lo ha letto, il film ha una trama molto semplice, e narra della vita, ascesa e discesa di un personaggio immaginario del settecento, Redmond Barry. Non è solo la trama a costituire la grandezza del film, ma l’assoluta perfezione della messa in scena del regista, che già dai primi minuti, sulle grandiose note di Handel (Sarabanda della Suite n.4) rapisce lo spettatore con tre ore di potenza, magia e fortissime emozioni. Come si costruisce un capolavoro? Nel film la musica scandisce perfettamente la narrazione e la sua tempistica, tanto che marce o anche solo passeggiate sono rappresentate a ritmo di classica e popolare irlandese (tra cui i Chieftains). Non sono solo l’udito, lo stomaco e il cuore a godere, perché anche gli occhi vengono estasiati da più direzioni: la scenografia, inevitabilmente premiata con l’Oscar, costruita come un quadro fotogramma per fotogramma; la regia ricca come di consueto di primi piani e di zoom, realizzati anche grazie a una lente sviluppata dalla Nasa; la meraviglia della fotografia, fatta solo di luce naturale, con candele e lampade a olio; l’estetica dei costumi (premiati), ognuno preciso rimando a uno stile dell’epoca. Il cast: Barry è Ryan O’Neal, reduce dal successo di Love Story e volto molto di moda all’epoca, mentre Lady Lyndon è la modella Marisa Berenson, già icona viscontiana di Morte a Venezia. Attori statici e perfetti per il ruolo, magnetici e disorientati come spesso succede nei film del Maestro (vedi Tom Cruise in Eyes Wide Shut). Di contorno, caratteristi fedelissimi al regista come Patrick Magee, Philip Stone (che ricoprono ruoli di grande importanza rispettivamente in Shining e Arancia Meccanica), oltre al magnifico capitano Quin di Leonard Rossiter, già attore in 2001. Il film è lungo e non facile, tanto che critica di 40 anni fa ne sottolineava sia la lentezza che la freddezza (nulla di più falso); fatto sta che Barry Lyndon è un mito, un film unico, che ha ispirato alcuni film successivi (I duellanti, per esempio), e soprattutto non un semplice affresco settecentesco, come anche queste righe sembrerebbero suggerire, bensì un’opera sull’uomo e sulla storia, col primo visto come impotente spettatore dell’ironico scorrere della seconda, vero arbitro della pellicola e della vita quotidiana. Si sorride, si mostra qualche ghigno, si balla, si parteggia per l’improponibile protagonista, si piange nella scena del funerale (di una potenza espressiva inaudita), e si resta nonostante la durata incollati allo schermo anche nei titoli di coda. Non fece un grande incasso, dopo 40 anni si può rimediare, anche se i primi dati cittadini ci dicono che non abbiamo un pubblico da capitale della cultura.

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