Consigliatissimo esordio di Ciprì in solitaria con È stato il figlio

«Italia a bocca asciutta», recitano i quotidiani per il quattordicesimo anno consecutivo (quando il Leone d’Oro lo vinse Così ridevano, di Gianni Amelio), delusi dall’esito amaro per Bella addormentata di Bellocchio che non ha ricevuto alcun premio. I premi della giuria composta, tra gli altri, da Michael Mann e Matteo Garrone, sono stati in ogni caso ben accettati da critici e spettatori (questi ultimi ben più credibili e affidabili) del Lido. La migliore sceneggiatura è andata al francese Oliver Assayas con il post-sessantottino Apres Mai, storia di giovani rivoluzionari apprezzatissima da pubblico e critica. Piuttosto acclamati gli attori premiati con la Coppa Volpi: la giovane israeliana Hadas Yaron per il controverso personaggio della giovane promessa sposa in Fill The Void, e la coppia Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman per un The Master che ha vinto anche il Leone d’Argento. Come da recensione dello scorso numero, chi vi scrive reputa il film un quasi totale fallimento, che ha il grande merito di suscitare non si sa bene quali sentori di capolavoro da parte dei critici, sempre che non si siano addormentati durante l’inutile e dannosa visione. Gli attori? Sembra più un premio alla carriera, perchè nel film sembrano due istrioni smarriti alla ricerca di un copione che non sa in quale direzione mandarli. Anche il premio speciale della giuria ormai sembra un riconoscimento al film più provocatorio: Paradise: Faith di Urlich Seidl ce lo ricordiamo soprattutto (e soltanto) per la scena di sesso tra la protagonista e un crocifisso. Unico premio, minore, è un contributo per la fotografia (si, detta così sembra un’elemosina, o meglio un premio di consolazione) per È stato il figlio, primo film di Daniele Ciprì dopo la separazione artistica da Franco Maresco, col quale hanno dato vita all’ormai storico Cinico Tv e a film come Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro. Raccontato da uno strano e solitario personaggio in coda alle poste, il film parla della famiglia Ciraulo, che in seguito a una disgrazia diventa ricca e come simbolo di ostentazione il capo famiglia compra una Mercedes. Siamo a Palermo, in un quartiere molto povero, nella seconda metà degli anni Settanta. Il film mantiene lo stile “cinico” della coppia di registi, ma la narrazione è molto lineare e l’abbondante surrealismo disseminato in ogni scena è qui utilizzato al servizio della storia, come metafora fin troppo chiara ma mai banale, della famiglia media, medio-bassa di un Sud Italia che potrebbe somigliare a qualsiasi Nord. Attori meravigliosi, soprattutto l’ormai storico Toni Servillo e l’ottimo Alfredo Castro, visto nel bello e invisibile Post Mortem. La volutamente sbiadita fotografia rende particolarmente efficace l’ambientazione temporale, e contribuisce a rafforzare l’idea che ci si fa del film: una cartolina dal passato, popolata da personaggi alla ricerca di icone, simboli e ogni altra forma di illusione per dimenticarsi della loro condizione attuale. Situazione che nell’unica parte (prima del finale) un po’ debole del film, esplode e forse segna un cambio di passo e di registro un po’ slegata dal resto; nulla di grave, nulla che rovini una visione consigliatissima. Ah, e il Leone d’Oro? Pietà, di Kim Ki-Duk, la prossima settimana!

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