Dagli estremismi di Tel Aviv alla provincia americana

La sposa promessa, di Rama Burshtein (2012)
Film in concorso nell’ultimo Festival veneziano ambientato all’interno di una comunità ebrea ortodossa di Tel Aviv. La giovane Shira perde la sorella Esther a causa del parto e si prende cura, assieme al marito Yochai, del neonato. La moglie del rabbino padre propone proprio Shira in sposa a Yochai, per riempire il vuoto lasciato dalla prematura scomparsa della donna. La vicenda è totalmente concentrata sulla protagonista, sui suoi ragionevoli dubbi e sul peso delle sue scelte lasciate dalla famiglia alla sua giovanissima età: e qui va sottolineata la strepitosa interpretazione (premiata con la Coppa Volpi a Venezia) per la giovane Hadas Yaron. La quarantacinquenne regista israeliana ed ebrea ortodossa Rama Burshtein è al suo primo film per un pubblico “esterno”, in quanto è da venti anni che realizza cinema esclusivamente per i membri della sua comunità. Il risultato è atipico e contrastante, sia nella scelta della forma, che del contenuto. Si legge in giro di un grande senso estetico del film, ma chi possiede uno smartphone non può non notare una fotografia troppo “instagrammata”; più interessante la scelta di limitare i primi piani, nell’etica del teorico rispetto delle figure. Dal punto di vista della storia, la regista racconta la sua comunità dall’interno senza filtri o critica, frapponendo non senza orgoglio lunghe scene di preghiera e lasciando allo spettatore un giudizio, probabilmente non richiesto, sul suo micromondo. Peccato che le sensazioni, invece, si provino eccome davanti a una storia di una famiglia che impone, a seconda degli eventi, uno sposo diverso al mese a una ragazzina. Peccato che l’ipocrisia spacciata probabilmente per coerenza etico-morale, sprizzi con una naturalezza quasi disarmante. La società (dentro la società) descritta ci suggerisce involontariamente come tutti gli estremismi, non importa di quale religione siano, creino violenza e oscurantismo. Il basito e attento spettatore, nonostante le ricorrenti cadute di ritmo, segue comunque la vicenda, grazie all’ottima caratterizzazione della protagonista, unico raggio di sole in un mondo buio.

Daydream Nation, di Michael Goldbach (2010)
Quei pochi che seguono la rubrica dalla sua nascita per forza sanno che il cinema giovanilistico indipendente laico americano si avvale di alcuni attori feticcio, un po’ come Al Pacino ai tempi dei film di malavita americana. Facile, fino a qualche anno fa, sbattere un Michael Cera in prima pagina e il successo era garantito. Negli Stati Uniti, perchè da noi questi film se arrivano, lo fanno con il contagocce. Questo è la storia della diciassettenne orfana di padre Caroline (la Kat Dennings di Nick e Norah) che si trasferisce dalla città alla periferia, illude a una festa lo stralunato Thurston (il Reece Thompson di Rocket Science), mentre cerca una relazione col suo insegnante. Lo sfondo è, come in tanti film, la desolazione della provincia americana, che lascia i suoi eredi tra la noia e lo sconforto, con la lucida protagonista a marcare questa differenza. Ciò che arricchisce una trama apparentemente troppo convenzionale, è la presenza di un serial killer che uccide le ragazze della zona. Commedia con thriller sullo sfondo, con una città che somiglia (con le dovute distanze) alla Twin Peaks di David Lynch, Daydream Nation è un film delizioso, non eccessivamente pretenzioso e che riesce a chiudere la vicenda al riparo di banalità e incoerenze. Visione molto piacevole, che pare non giungerà mai sui nostri schermi: meglio reperire i sottotitoli italiani in rete, dopo la versione in lingua originale. Da vedere anche la rediviva Andie MacDowell.

EROSANTEROS POLIS BILLBOARD 15 04 – 12 05 24
CONSAR BILLB 02 – 12 05 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24