Dal thriller svedese alla Biancaneve spagnola

L’ IPNOTISTA, di Lasse Hallstrom (2013)
Il regista svedese Lasse Hallstrom ha una carriera quasi interamente hollywoodiana non particolarmente brillante, visto che a parte Buon Compleanno Mr.Grape, ha collezionato un film più brutto dell’altro ma di buon successo, dall’insopportabile Chocolat, passando per la Casa del sidro fino al cagnolino Hachiko. Ci vuole un tocco di masochismo, quindi, ad affrontare quello che rappresenta il suo ritorno in patria, con un genere per lui nuovo: il thriller, rivalutato in Scandinavia grazie al successo della svedesissima trilogia di Millenium, di cui Ipnotista giocoforza respira la stessa aria e ne mantiene le qualità. Per gli amanti del giornalismo va subito premesso che il detective anticrimine non è Massimo Giannini di Repubblica, ma un perfetto sosia, lo sconosciuto finlandese Tobias Zilliacus, alla ricerca del solito serial killer che ha sterminato una famiglia intera. Come si può intuire, il vero protagonista è un ipnotista che ha smesso di esercitare la professione in seguito a uno scandalo, e che aiuterà il detective nelle indagini. Siamo di fronte a un thriller convenzionale ben girato, ben caratterizzato e dotato di buona tensione, che purtroppo a volte si stempera per il continuo soffermarsi sulla vita coniugale dell’ipnotista, un po’ perchè Hallstrom è un tenerone, un po’ perchè la moglie è Lena Olin, ovvero l’unica attrice internazionale del film. Strano però affidare i momenti più ironici alla collega detective in maternità, che non vuole e non può seguire le indagini a causa dei piagnistei continui del suo bimbo. Un film per il grande pubblico, dove la rivendicatissima Scandinavia invernale costituisce una cornice affascinante e spettrale, e in cui purtroppo inevitabilmente nella versione italiana si annullano i giochi ironici tra svedesi (il luogo del delitto) e finlandesi (l’unità anticrimine). Non che guardarlo in lingua originale, per un italiano, cambi molto, eh.

BIANCANIEVES di Pablo Berger (2012)
Tra i film in concorso al Mosaico Film Fest (vedi articolo a pagina 17), spicca per curiosità l’ennesima e cinefila versione della celebre favola dei fratelli Grimm. Molto vicina alla cultura spagnola, la Biancaneve di Berger è figlia di un torero paralitico a causa di un incidente e di una madre morta di parto. Passata presto tra le grinfie della matrigna, ex infermiera, la protagonista troverà modo di ricalcare le orme del padre grazie all’aiuto, ovviamente, dei sette nani. La caratteristica di questo film, in comune con quella del pluripremiato The Artist, è il suo essere muto e in bianco e nero, in omaggio e citazione del cinema espressionista degli anni venti, periodo in cui è anche ambientata la vicenda. Rigoroso come il suo “gemello” cinematografico, Blancanieves arricchisce una vicenda nota sia di cultura iberica, sia di celate ma stilisticamente evidenti citazioni di alcuni grandi del passato, da Bunuel a Dreyer, dal Freaks di Tod Browning fino (secondo alcuni) al Lynch di Eraserhead. Il risultato è senza dubbio affascinante, anche se, complice un incipit lungo e faticoso, cento minuti di proiezione sono tantini: vero è che lo spettatore non è più abituato a certi meccanismi (si pensi solo alle didascalie al posto dei dialoghi), ma un po’ di lavoretto di montaggio non sarebbe stato male. Molto cupo e tendente al tragico, alternato a momenti di ironia, Blancanieves è un film comunque molto originale, da scoprire, campione di premi ai Goya (gli Oscar spagnoli) e con un cast composto da attori bravissimi e attrici assolutamente meravigliose, in tutti i sensi.

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