Dalla fantascienza da sbadigli all’adrenalina sulla neve

Automata (di Gabe Ibanez, 2014)
Attenzione: la trama di questo film l’avete già letta. in tanti altri film, perchè trattasi di fantascienza. Nell’anno 2044 la terra è al collasso per scelte ambientali sbagliate dell’uomo, e la vita e la tecnologia sono ridotte ai minimi termini a causa del clima che sta riducendo il pianeta a un deserto. Per rafforzare l’umanità, già da anni sono operativi un prototipo di robot usato principalmente per lavorare e che nel sistema ha un imprinting ben preciso: non può attaccare le forme di vita viventi e non può alterare se stesso. Qualcosa ovviamente non va, e un agente assicurativo della robotica scopre un traffico di robot alterati sulla seconda “regola”. Queste modifiche provocano in loro una conseguenza molto semplice: l’evoluzione. Trama già letta, ma comunque sviluppata in maniera non convenzionale, con l’aspetto di un  classico noir fantascientifico (ebbene si, Blade Runner) e con poca azione. Al timone della storia, il buon vecchio Antonio Banderas, che abbandona momentaneamente capelli e galline, e con buona volontà (e media credibilità) risulta il fulcro di questa storia, esordio alla regia dello spagnolo Gabe Ibanez. Film spagnolo, girato in Bulgaria, parlato in inglese (ahi ahi Mr. Banderas), ma ovviamente doppiato in italiano. Tutto bene quindi? La risposta, a volte, è molto semplice: no. Il film procede con grande fatica, carico di tempi morti, ma senza alcun approfondimento psicologico o contestuale. Spieghiamoci meglio: film bellissimi come Melancholia e Another Earth utilizzano la fantascienza come mezzo per raccontare storie umane con un’ottica estremamente originale; Automata è un film puramente di genere, con tematiche coerenti quali evoluzionismo, rapporto tra umani e robot, catastrofi ambientali, società senza anima e così via, senza avere un briciolo di mordente nell’affrontarli. Il risultato finale (e la durata sotto le due ore) non è da disprezzare e può piacere agli amanti del genere, ma si tratta di un film che non si lascerà ricordare, sbadigli a parte. In un ruolo secondario, la versione liftata di un’icona anni 90, nonché ex moglie del bell’Antonio: Melanie Griffith.
Into The Mind (di Eric Crosland e Dave Mossop, 2012)
Stagione invernale agli sgoccioli, parliamo di neve. Documentario sul rapporto estremo tra uomo e neve, affrontata con qualsiasi forma di attrezzo (sci, snow e simili), che vede un gruppo di atleti che tentano le vie più incredibili per scalare e scendere, utilizzando tecniche di riprese al massimo del realismo. Cosa che può risultare facile se si riprende una cena tra amici, quasi impossibile se si seguono certe imprese. Il film è presentato come un’esperienza visuale, emotiva e spirituale. Sulle prime due non ci sono dubbi, l’esperienza è enorme, sul terzo si cerca di contestualizzare il racconto con momenti con al centro un monaco tibetano. La terza scena, che vede Callum Petit protagonista, è qualcosa di talmente incredibile da coinvolgere anche chi odia la neve, perchè tale è la regia, tale è la potenza, tale è la drammaticità mostrata da non restare indifferenti. Storie non prive di drammi, imprese non vissute come autocelebrazioni, semplicemente (ma neanche tanto) 80 minuti di lotta tra uomo e natura. Battaglia che finisce in pareggio, ma con molti gol. Colonna sonora elettronica canadese perfetta per questo film anch’esso canadese. Da recuperare, in Italia è difficile che esca, sottotitoli disponibili in rete anche se i dialoghi sono pochissimi.

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