Dalle lunghissime due ore di Carol fino al nuovo Woody Allen

Carol (di Todd Haynes, 2015) Ci sono tre ingredienti di lusso in questo film. Il regista Todd Haynes è una delle perle del cinema contemporaneo: da grande appassionato di musica prima ha reso omaggio al glam rock e a David Bowie (che non ha gradito) con il bellissimo, difficile e psichedelico Velvet Goldmine, poi ha reintrepretato Bob Dylan con un altrettanto psichedelico e originale (Dylan è interpretato da sei attori diversi tra cui la premiatissima Cate Blanchett) Io non sono qui. Ha poi già dimostrato in passato di amare il melodramma anni cinquanta con l’ottimo Lontano dal paradiso. Carol segue la linea stilistica di quest’ultimo e affida il ruolo di protagonista alla fedele, pluripremiata e già citata Blanchett, che è il secondo ingrediente del film. Terzo e ultimo, la grande Patricia Highsmith, autrice del romanzo omonimo, conosciuta dal cinema più per la produzione gialla e per aver ispirato film a Hitchcock e Wenders, tanto per citarne due. Carol è, come detto, un melodramma d’amore, ambientato nei primi anni cinquanta e rigorosamente girato come se fosse un film del periodo. Il modello, ancora una volta, è Douglas Sirk, e la storia d’amore è tra due donne, lasciando a voi immaginare tutte le conseguenze trovandoci nel 1952. L’altra protagonista è una deliziosa Rooney Mara, vestita perfettamente da Audrey “Arianna” Hepburn e tutto il film è narrato come un lungo flashback (e qui il modello è il Billy Wilder di Viale del tramonto). La cura dei personaggi è impeccabile, e per quanto le due protagoniste siano quasi delle piccole eroine, la parte maschile ne esce inevitabilmente sconfitta. Ma è una storia, non un manifesto, e per quanto succede la messa in scena è ben resa sia nell’ambientazione, che nelle persone. Ok, Haynes, ora che abbiamo scoperto tutte le tue citazioni, lodato le tue attrici e apprezzato i tuoi costumi, iniziano i problemi, perché le due ore di durata del film sono tra le più lunghe della storia del cinema. L’esercizio di stile assorbe totalmente la potenziale passione della storia e appiattisce clamorosamente il ritmo, appesantendo la narrazione e creando un solco piuttosto netto con lo spettatore. Non resta nulla, davvero nulla.

Lost in 2015: cosa ci siamo persi la scorsa stagione?
Giovani si diventa (di Noah Baumbach, 2014) Iniziamo dalla fine: Noah Baumbach è un grande, perché non ha mai sbagliato film, da Il calamaro e la balena a Frances Ha, passando per Lo stravagante mondo di Greenberg, con l’amico Ben Stiller, richiamato protagonista per questo film. Innanzitutto va detto che il titolo italiano non funziona ma non era facile tradurre While We’re Young con una frase non banale: questo, nonostante la presenza di un protagonista forte, e probabilmente anche a causa dell’assenza di Checco Zalone, ha tenuto lontano gli spettatori rendendolo una perla semisconosciuta della scorsa stagione. Josh e Cornelia sono una coppia di ultraquarantenni, lui documentarista in crisi creativa, lei produttrice; l’incontro con una coppia di venticinquenni li farà rinascere moralmente e ritrovare mondanità, creatività e felicità, ma solo momentaneamente. Da pellicola generazionale, accompagnata da dialoghi e situazioni brillanti, ritmo, idee e stimoli, il film diventa man mano una cinica riflessione su cinema, ispirazione e psicoanalisi. Baumbach è il nuovo Woody Allen, questo è certo, non ai livelli del Sommo regista, ma certamente il suo miglior allievo. Il duo Stiller–Watts è perfetto e anche i giovani attori, figli del cinema indipendente del regista, funzionano alla perfezione. Uno dei migliori film della scorsa stagione, da recuperare.

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