Everest, un film senza piagnistei, ma anche senza montagna

Everest (di Baltasar Kormàkur, 2015)
Nel 1996 la vetta dell’Everest è ormai affollata meta di molte spedizioni commerciali, che tendono troppo spesso a portarsi dietro dilettanti non all’altezza; una di queste subirà un destino tragico a causa sia di errori umani che di terribili condizioni climatiche. Il film narra la storia vera di questa spedizione e di un tragico 10 maggio. Il film presenta i personaggi e mostra le diverse provenienze sociali nella squadra di coloro che stanno per tentare l’ascensione. La guida Rob sta per diventare padre, il texano Beck ha problemi in famiglia, Doug una promessa da mantenere e a Yasuko manca solo questa vetta per completare un curriculum di scalate incredibile. Questi sono solo alcuni personaggi, infatti l’alto numero di protagonisti è il primo di una serie di difetti del film di Kormàkur: difficile scoprire i motivi che portano a un gesto così folle (una sorta di roulette russa, non dimentichiamolo), difficile tratteggiare con cura tutti i protagonisti, imperdonabile lasciare per strada alcuni dei più interessanti, primo fra tutti l’alcolista Scott Fischer, interpretato da quel grande attore che è Jake Gyllenhaal, che viene letteralmente buttato via dal regista. Primo difetto, la caratterizzazione dei personaggi, quindi. Anche se va detto a difesa del regista che il film raramente si lascia andare a inutili sentimentalismi o a lagne proprie del cinema hollywoodiano. Secondo difetto, la montagna. Al sottoscritto e a tutti quelli che amano andare in montagna così come a scalate come questa manca il senso della montagna. C’è qualche buona scena, c’è qualche brivido, ma non si avverte (come nei documentari, soprattutto il recente Into The Mind) il brivido dell’alta quota, del rischio, del senso di vita e di morte. Troppo attento prima a dialoghi (troppi campi base, nel film), poi alla resa della tempesta che avrà la meglio sull’uomo, si perde la neve, la cima, la paura di essere lì anche solo per un minuto. A volte, però, troppo facile parlare da un divano e stroncare (meglio, criticare) un film non pienamente riuscito. Chiediamoci: e come lo avrebbe dovuto fare? Intanto, due ore e venti passano benissimo, e non è poco. Inoltre, il regista islandese ha tenuto al minimo le frignate tra mariti, mogli, figli nati e figli che devono nascere. Aggiungiamo che se avesse voluto documentare minuziosamente la scalata e la discesa, avrebbe realizzato appunto un documentario; tra l’altro, sulla stessa tragedia, esiste un bel documentario del 1998 ed è raro a trovarsi (ci sono clip su YouTube con sottotitoli in inglese). Quindi sono uscito dal film deluso e impotente. Deluso per il film in sè, impotente perché sinceramente non avrei la più pallida idea di cosa avrei voluto vedere al suo posto. In ogni caso, come apertura di un Festival di Venezia mi pare un po’ troppo, e il ricordo indelebile di Baltasar Kormàkur resta la sua commedia di debutto, il divertente e magico 101 Reykjavik, delizioso apologo sulla vita della capitale islandese nel giorno di Natale. Se volete, invece, un bellissimo e inquietante film su quanto le montagne siano belle e mortali, recuperate La morte sospesa, che però… è un documentario!

NATURASI BILLB SEMI FAVE PISELLI 17 – 26 05 24
CGIL BILLB REFERENDUM 23 – 29 05 24
RFM 2024 PUNTI DIFFUSIONE AZIENDE BILLB 14 05 – 08 07 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24