Grand Hotel Budapest, che meraviglioso spettacolo

Grand Budapest Hotel (di Wes Anderson, 2014).
Un piccolo prologo ci introduce in un albergo in un’immaginaria regione prussiana situata tra Austria e Ungheria, un Grand Hotel un tempo lussuoso e ora soltanto funzionale casermone perennemente vuoto. Attraverso la voce del suo anziano padrone ne viene così narrata la storia, dallo splendore dei primi anni del secolo, al dramma della seconda guerra mondiale. Dedicato allo scrittore austriaco Stefan Zweig, pacifista fino al punto che negli anni trenta i nazisti bruciarono tutti i suoi scritti, Grand Hotel Budapest è una magnifica favola ispirata alla sua opera. Il regista, dai Tenenbaum fino al più recente Moonrise Kingdom, ha uno stile e una poetica narrativa ben precisi che in questo film non cambiano e anzi raggiungono il sublime. Girato in 5 capitoli, ma diviso essenzialmente in due parti, Grand Hotel Budapest inizia come una festa, un tripudio di luci, colori, immagini e soprattutto dialoghi, il vero punto di maturazione di Anderson, sublimi in ogni sua forma, che sia prosa o poesia. Spina dorsale della storia è uno straordinario Ralph Fiennes, dalla fisicità imponente e dalla lingua forbita, che dà vita al Signor Gustave, personaggio straordinario e unico nella storia del cinema. Un’interpretazione magistrale “sfuggita” ai membri dell’Academy, visto che i candidati all’Oscar non valgono un’unghia di Fiennes, neanche sommati. A proposito di attori, oltre ad alcune deliziose apparizioni che qui non vanno svelate, si apprezzano i redivivi Harvey Keitel, Jeff Goldblum e F. Murray Abraham, insieme ai giovani Tony Revolori (meraviglioso debuttante) e Saoirse Ronan, già amata in Amabili Resti. Una festa in un grande albergo è quello che splende agli occhi di uno spettatore estasiato; una festa che deve finire e una trama che si deve sviluppare: Anderson tiene bene il timone nella seconda parte (non sempre c’è riuscito) e dà sfogo alla fantasia più sfrenata (nelle scene sugli sci e la sparatoria in albergo), mantenendo fedeli sia lo spirito pacifista del film, sia i dialoghi meravigliosi, sia la coerenza della storia, sempre più favola, sempre più romantica, sempre più malinconica. Anderson, si sa, è molto radical chic e qui gioca anche con il formato di proiezione, panoramico nel presente e nel passato recente, mentre per gli anni trenta usa rigorosamente il 4:3 (il vecchio formato quadrato delle tv) in omaggio al cinema di quegli anni. La scelta favolistica però è totale, ed è espressa anche nel non dare il vero nome al nazismo e ai suoi sanguinari protagonisti, anche se è alquanto impossibile non riconoscerli. In definitiva, Grand Hotel Budapest è uno spettacolo: per gli occhi è un film cromaticamente perfetto, per le orecchie nei già citati dialoghi e la musica, per la bocca che spesso si apre per ridere e per il cuore per le emozioni che può dare la più classica delle storie d’amore.

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