Hunger Games II, molto più che un episodio di transizione

Hunger Games – La ragazza di fuoco (di Francis Lawrence, 2013)
I “giochi della fame” di un mondo futuristico e (in parte) fantasioso si concludevano nel primo capitolo  la protagonista Katniss che si ribella e le alte sfere della Capitale che scelgono la tradizione dei regimi e cioè modi sempre più duri per mantenere il dominio sul popolo. La giovane, imperfetta eroina, complessa nel domare e comprendere i propri sentimenti nei confronti di chi le sta attorno, è sempre Jennifer Lawrence, che si conferma un’attrice straordinaria, sicuramente la migliore della sua generazione, forse la migliore in circolazione in assoluto. Tornando ai giochi e all’aria di rivoluzione che si respira, il capitolo di mezzo sconta i limiti di una storia che con lui non inizia e non finisce, come in tutti gli imperi che colpiscono ancora che si rispettino. Non prendete sottotono la prima parte, vera anima del film, che descrive come i protagonisti acquisiscano la consapevolezza dei loro ruoli e di quanto siano pronti a diventare la voce principale del canto della rivolta. Da parte sua il regime acquista un nuovo generale per una nuova strategia, e il cast allarga al grande e purtroppo già compianto Philip Seymour Hoffman: il suo Plutarch prende il posto di un misteriosamente dimissionato Seneca alla guida. E per discutere sui rimandi filosofici, ci vorrebbero almeno quattro pagine del giornale. La seconda parte del film è costituita ancora dai giochi, che per non risultare una ripetizione rispetto a ciò che era il punto di forza del primo film, giocano maggiormente su rapporti tra i “giocatori” e il ricorso a trucchi telivisivi da parte di chi i giocatori li vuole morti. La sfida al sistema diventa totale in una bellissima scena, che cita addirittura l’indiano di Fabrizio De André, tirando “una freccia in cielo, per farlo sanguinare”: voluta o non voluta non è importante, diciamo solo che riscontriamo una naturale e gradita condivisione di ideali. Quello che doveva quindi essere soltanto un episodio di transizione, si rivela un contenitore di significati e un prezioso contributo alla conoscenza di questo mondo che altro non è che la metafora di tutte le grandi rivoluzioni a cui la nostra storia recente ha assistito a volte senza dar loro la necessaria importanza. Un’analisi del sottotesto che spesso ci sussurra il cinema, qui tramite uno spettacolo ben congeniato e orchestrato, un’avventura che può attrarre anche i giovani, una realizzazione narrativa principale piuttosto semplice. Certo che non siamo dalle parti del cinema di denuncia, né del cinema storico che soprattutto negli anni settanta ha formato generazioni intere di menti pensanti (forse); siamo davanti a un semplice spettacolo che fa bollire il sangue e strizza l’occhio alla nostra storia passata, recente e forse futura. Ciò che rovina lo spettacolo è il successo che ci costringe a guardare ben due film tratti dal terzo capitolo, Il canto della rivolta, trasformando il primo film, ora nelle sale, in un obbligato e inevitabilmente (a tratti) noioso episodio di attesa. Non è la prima volta: con Harry Potter scoraggiarono chiunque, con il Che di Soderbergh furono certamente più esaustivi, ma anche troppo dilatati nei tempi. È cinema, non è televisione: Twin Peaks in sala non funziona. E non provateci con True Detective. Detto questo, buona rivoluzione a tutti!

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