Il falloso e geniale The Lobster, il dolorosissimo La tomba delle lucciole

The Lobster (di Yorgos Lanthimos, 2015)
In un futuro non lontano e senza effetti speciali (giusto per non farsi prendere in giro dopo trent’anni come è accaduto con Ritorno al futuro), chi rimane single viene rinchiuso in un centro specializzato per accoppiamenti e deve per forza trovare un partner entro 45 giorni, pena la trasformazione in un animale a scelta (e la “lobster” è l’aragosta, per una volta che potevano tradurre…). Oltre a spiegare in pochi minuti la natura animale, il film cerca di fatto di ricreare il mondo attuale con le sembianze di una società futuristica, e lo fa attraverso situazioni oltre l’assurdo. Il greco Lanthimos, classe 1973, è una novità solo per l’Italia, visto che il suo strepitoso debutto, Kynodontas (Canini), recensito su queste nobili pagine ben quattro anni fa, è uscito ovunque tranne  qui. E il successivo e inferiore Alpis ha visto la luce al Festival di Venezia, senza mai sorgere nelle sale italiane. Il ragazzo ha fatto strada e soldi e si è potuto permettere produzione francese e star del calibro di Colin Farrell e Rachel Weisz. Proprio quest’ultima, insieme con il truffaldino trailer, farebbe pensare a una versione più stravagante di Youth di Sorrentino. Nulla di più sbagliato, The Lobster è un dramma psicologico violentissimo che rimanda  all’Arancia meccanica kubrickiana e soprattutto al Pasolini di Salò, anche se Lanthimos, pur non sfiorando  la grandezza dell’immortale Stanley, gira decisamente meglio di Pasolini (ihihih). Non dimenticando neanche la lezione di un altro maestro del calibro di  Haneke, il regista mostra pochissime immagini crude, ma colpisce la psiche dello spettatore in maniera frontale. Un film molto interessante e provocatorio, destinato a dividere, che per il narcisismo del regista nella seconda parte diventa un po’ troppo stiracchiato; un film però, come per i maestri citati, che rimandiamo ai posteri chiedendoci se  siamo pronti per questa forma di comunicazione via schermo. Voce fuori campo grottesca e trainante, e musiche estremamente presenti, danno un tocco decisivo e potenziato a tutta la narrazione. Difficile tirare le somme: sono uscito un po’ annoiato, a volte disgustato eppure senza mai smettere di pensare un attimo alla storia e a ogni singola scena. Qualcosa di forte, dunque, in tutti i sensi, e che si è meritato il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes. Falloso e geniale, di certo non è Hunger Games né tantomeno Star Wars.
La tomba delle lucciole (di Isao Takahata, 1988)
Scoperto Miyazaki, trovato il filone d’oro, e anche l’inganno. Il cartone è una produzione dello Studio Ghibli del maestro di animazione giapponese, e pur distribuito in Italia tramite canali non principali (credo solo Pay Tv), sull’onda dell’amore nipponico viene mandato nelle sale. Il film l’ho visto oltre vent’anni fa, non entro nei particolari, ma un paio di avvisi vanno dati. La tomba delle lucciole è molto molto bello, ed è tanto bello quanto triste. Il film mostra la sorte di due orfani abbandonati ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, ed è probabilmente, al pari di Incompreso e Million Dollar Baby (seconda parte), il film più triste e tragico che io abbia mai visto. Però è bellissimo. Però è inaffrontabile. Come The Lobster, e molto diversamente da lui, si tratta di un dolorosissimo pugno nello stomaco, antimilitarista e disturbante. Si esce provatissimi. Non per bambini, a meno che non gliela vogliate far pagare carissima e siete tanto cattivi. Bellissimo.

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