Il Golden Globe per un film da rivedere, e poi scoprire che è un capolavoro

La grande bellezza, fresco vincitore di Golden Globe e aspirante Oscar come film straniero, segna una sorta di ipotetico segnale di rilancio dell’Italia e del suo cinema, ancora una volta attraverso l’opera di un grande regista che almeno in due occasioni ha mostrato di essere uno dei maggiori talenti contemporanei (e parliamo de Le conseguenze dell’amore e Il divo, ma anche gli altri film sono molto belli). Accanto al suo bravissimo attore feticcio, quel Toni Servillo tirato fuori di forza dal teatro e da dieci anni considerato il grande erede della recitazione italiana e che ci ha fatto conoscere in tutto il mondo, Paolo Sorrentino sorprende il pubblico assemblando un cast di stelle non splendenti come hanno saputo fare in passato. Fa piacere veder recitare Carlo Verdone in un film non suo, con un’interpretazione misurata e convincente; bello e malinconico il ruolo di Sabrina Ferilli e della rediviva Pamela Villoresi. La compagine napoletana è arricchita da Iaia Forte (che ultimamente ha preferito il palcoscenico) di quel Carlo Buccirosso, comico lanciato da Salemme, magnificamente trasformato da Sorrentino in attore drammatico (un nuovo Abatantuono?). Tra apparizioni e ruoli minori le sorprese non mancano, ma non è certo il cast il punto di forza principale di un film che sta a metà strada tra La dolce vita di Fellini ed Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Mentre il paragone a Fellini è da tutti riconosciuto, se troverete azzardato il paragone all’ultimo Kubrick, l’invito è di riguardare il film nell’ottica delle decadenti atmosfere che si vengono a creare durante le feste, dentro una Roma appunto un po’ felliniana e un po’ crepuscolare. Le feste nel film segnano i tempi e i passi di una vicenda in cui non sembra importante né lo scorrere del tempo, né la concezione degli spazi, immersi in una capitale sempre magnificamente mostrata, ma focalizzata nei locali di quella che Lizzani chiamava la Roma bene. Sarebbe però ingeneroso presentare così la storia di Jep Gambardella, giornalista di costume sempre al centro del glamour e che proprio per quest’attitudine ha perso l’ispirazione per la scrittura di un romanzo che manca da troppo tempo. Sarebbe ingeneroso raccontare una trama che sembra uguale a quella di tanti altri film, e sarebbe anche ora di smettere (autocritica) di tirare fuori sempre Fellini. Sorrentino ha un’impronta cinematografica forte e personale, uno stile di racconto che compie continui viaggi di andata e ritorno dal surreale, che dipinge spesso caricature per poi scoprire che sono vere quanto la realtà. È questa la genialità di questo giovane regista napoletano, quella di aver colto la lezione dei grandi del passato, rielaborando da ognuno gli ingredienti giusti per una personalità oggi unica, e originale, a livello di altri “reinventori” di cinema come Tarantino e Anderson (Wes). La grande bellezza non è un film facile, immediato, divertente e a volte neanche così coinvolgente. È un’opera da gustare, accettare, fare crescere nel tempo, e al momento giusto tirarla nuovamente fuori. E probabilmente ci si renderà conto di avere a che fare con un capolavoro.

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