Il secondo report da Venezia

Subito i film, sempre col regista tra parentesi. Potrete constatare che dopo il buon livello dei primi giorni, la pacchia è finita.

Balada triste de trompeta (Alex de la Iglesia). Il circo ai tempi di Franco, un clown triste che s’innamora della trapezista sbagliata, amore, sangue e tante assurdità. Tecnicamente ben curato, la Trompeta è il film che più ha diviso gli spettatori: per qualcuno si è visto il nuovo Tarantino, per altri, molto più saggiamente, si è trattato di una ciofeca delirante e insopportabile. Certo, tra decine di drammi familiari, un abbaglio lo si può prendere. 4.

Oça - Dad (Vlado Skafar). Un film che inizia con 5 minuti di ripresa fissa con due pulci in acqua non meriterebbe altro tempo, ma il masochista che è in me ha deciso di andare avanti un’altra mezz’oretta che vede un padre e un figlio che non si parlano, pescare. Un pesce preso. E via dalla sala. 2. Essential Killing (Jerzy Skolimowski). Afghanistan. Vincent Gallo è un prigioniero afgano che è sfuggito a una cattura e che cerca tra le bianche montagne un rifugio. Gallo recita (bene) da solo per più di un’ora di film, ma dopo un po’ si tende a preferire un buon documentario di Discovery perché la noia subentra furbescamente e abilmente come il prigioniero protagonista, e non ci abbandona più. Peccato, bell’inizio, bella regia e bella recitazione. 5,5. The Town (Ben Affleck). Chi non viene ai festival, non può capire il ruolo positivo che gioca, a metà festival, un film americano totalmente prevedibile, banale, mieloso e senza un’idea che sia una. Non si può capire che una sciocchezzuola inutile come il secondo film di Affleck (peccato, Gone Baby Gone era bello) sia una sorta di aspirina che rilassa per due ore dai mattoni festivalieri. 6 (e grazie). That Girl In Yellow Boots (Anurag Kashyap). Chi scrive ha, evidentemente, grossi problemi col cinema indiano. Questa storia di una ragazza mezza inglese che viene in India a cercare il padre fa rimpiangere ogni “senza famiglia” mai visto in tutti questi anni. Che poi per mantenersi faccia massaggi, e per mantenersi meglio aggiunga qualche extra al massaggio semplice, è una novità che dopo cinque minuti di sorrisini e sorrisetti, svanisce nel nulla. 4,5.

Homeland (Syllas Tzoumerkas). Dramma familiare greco, ben girato e montato vertiginosamente, tanto che a fine film nessuno aveva capito un qualcosa della trama. Non contento del disastro combinato, il regista ci rifila come sigla finale Felicità di Albano e Romina. 4. Et in terra pax (Matteo Botrugno, Daniele Coluccini). Che bella sorpresa quest’opera prima! Sorta de L’odio romano, ambientato nella periferia della capitale, con attori, sceneggiatori e registi totalmente esordienti. Qualche piccolo difetto di sceneggiatura e di messa in scena, ma questo film è ciò che si vuole vedere a un festival: gente nuova, aria nuova. In bocca al lupo. 7. Il primo incarico (Giorgia Cecere). Puglia, 1953. Una maestrina riceve il suo primo incarico in uno sperduto paesello abruzzese. La Ragonese è sempre brava, il film è corretto ma sinceramente non ci si alza dalla sedia. Resta il fatto che non è mai banale. 6 meno. Nella terza e ultima parte, un’analisi complessiva alla luce dei premi assegnati. Continua…

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