Il segno del comando

D’estate fa caldo. Così capita che anche i migliori commettano clamorosi refusi. Figuratevi gli altri. Può capitare di dire che il mitico Michael J. Fox sia il protagonista di Genitori in Blue Jeans (al posto dell’ormai carneade Kirk Cameron), mentre in realtà era il mattatore di Casa Keaton. Roba comunque di poco conto, in confronto a ciò di cui si sta per parlare. Il 16 maggio 1971 quindici milioni di telespettatori (una cifra inimmaginabile da convertire ai giorni nostri) rimasero inchiodati, spaventati e affascinati davanti alla televisione.

Era stata appena trasmessa la prima puntata de Il segno del comando, sceneggiato in cinque puntate, un giallo che aveva e ha tuttora tutte le caratteristiche per essere considerato una vera e propria mini-serie dell’orrore, che conta su un trio d’attori eccezionale, composto da Ugo Pagliai, Carla Gravina e Massimo Girotti. La storia parla di un professore inglese esperto di Byron che va a Roma ufficialmente per presentare la sua opera basata sui diari del poeta inglese, in realtà perché ha ricevuto una lettera dal misterioso pittore Tagliaferri che gli rivela di luoghi romani inediti della vita di Byron. Anziché il pittore, però,  troverà una giovane e misteriosa donna che lo accompagnerà per i luoghi magici di Roma senza inizialmente dare grossi indizi sull’identità di Tagliaferri.

La trama è carica di colpi di scena, che rendono via via il mistero più fitto, fino ad arrivare a un finale che svela in modo soddisfacente tutti i nodi. Il segno del comando incolla lo spettatore allo schermo, tuttora. Perché ha meccanismi narrativi semplicemente perfetti, attori eccezionali e una Roma misteriosa e meravigliosa. È proprio la Capitale il valore aggiunto del telefilm: i suoi luoghi, i suoi misteri, le sue vie notturne costituiscono a tutti gli effetti un magnifico attore non protagonista. Scandita dalla mitica sigla Cento Campane cantata da Nico e i Gabbiani, la serie ha lasciato un vero e proprio segno nella memoria di tutti gli italiani che nel ’71 avevano una televisione; per tutti gli altri, Il segno del comando è un oggetto di culto presentato in qualche festival di genere, con la speranza di trasformarlo da serial cult a classico senza tempo. E ce ne sarebbero tutti i motivi, perché, tolto qualche momento in cui gli anni si fanno inevitabilmente sentire, la serie non mostra alcun segno di vecchiaia, reggendo decisamente il confronto coi grandi classici di genere, primo fra tutti quel Twin Peaks che ha più di un punto in comune con questa serie.

La differenza principale col capolavoro di David Lynch è il carattere prevalentemente teatrale dell’opera nostrana, dovuto soprattutto alle numerose scene di interni e dalla provenienza dei suoi attori principali. Non pensate alle fiction odierne, prodotti nel migliore dei casi innocui, perché Il segno del comando è un capolavoro; queste righe sono solo un modesto tentativo di rinfrescare la memoria a chi nel ’71 c’era e di mettere l’acquolina in bocca a chi non l’ha mai sentito nominare. Fatevi del bene, guardatelo, visto che è da tempo uscito in Dvd per Rai Trade: 5 puntate di un’ora ciascuna (l’ultima dura due ore) di mistero, magia e puro fascino senza colori. E buone vacanze.

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