Il taxi del grande Panahi e quella chicca sulla Napoli del 2020

Taxi Teheran (di Jafar Panahi, 2014)
Jafar Panahi è uno dei registi più importanti del nostro tempo, non solo per la sua produzione cinematografica, ricca di grandi film e premi nei festival più importanti, ma anche per il suo impegno per la libertà di espressione nel suo paese, l’Iran. Per il suo attivismo infatti, il regista qualche anno fa è stato arrestato e condannato, e ora gode (si fa per dire) di una libertà parziale, caratterizzata dal divieto di realizzare film nel suo paese. Un atto non solo violento e grave, ma anche masochistico, visto che Panahi per ogni suo film fatto ha vinto un premio, dal Leone di Venezia (Il cerchio, 2000), passando per il Pardo di Locarno e vari premi a Cannes, fino ad arrivare a questo Taxi Teheran, girato clandestinamente per la capitale con la telecamera “mascherata” da smartphone, che ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino. Panahi qui è anche protagonista, visto che veste i panni di un impacciato tassista che ospita vari personaggi senza ben sapere come portarli a destinazione. Ogni passeggero è totalmente diverso dall’altro, e permette al film di fare una fotografia varia e ricca della società attuale di cui Panahi non può far parte. Anche gli attori quindi hanno rischiato la cacciata dal paese, nel girare questo film: non a caso, non ci sono titoli di coda coi crediti. Non si va a vedere Taxi Teheran per compassione o per un comunque giusto spirito solidale, ma perché siamo di fronte all’ennesima grande opera di uno dei maggiori autori moderni. Un film a suo modo semplice ma non inferiore ai lavori che lo hanno posto all’attenzione del mondo. Un film che vuole essere anche una riflessione, politica e realista, sul ruolo che la cultura può avere nell’educazione di un popolo; infine, un suo grande successo  anche di pubblico sarebbe certamente il miglior messaggio da dare a un paese che con la libertà ha ancora qualche evidente problema.

L’era legale (di Enrico Caria, 2011)
Da Teheran a Napoli, con tutt’altro spirito e realizzazione tecnica, senza creare problemi o esserne vittima, ma senza mancare di esercizio critico. Mockumentary, cioè falso documentario. La Napoli del 2020 è un paradiso di legalità, e di conseguenza una città fiorente per turismo e ricchezza di produzione. Artefice dell’impresa, il sindaco Nicolino Amore, il cui segreto, si scoprirà ben presto, è quello di aver legalizzato la droga. Enrico Caria è un vignettista le cui incursioni al cinema sono sempre degli autentici pezzi di follia, bravura e originalità, come il precedente Blek Giek (con Lillo e Greg), una chicca carica di autentica stravaganza. Il film è strutturato con interviste eccellenti a personaggi come Renzo Arbore, Carlo Lucarelli, Giancarlo de Cataldo e Pietro Grasso, alternate a momenti di pura fiction e invenzione con il mitico Patrizio Rispo (il volto più noto della soap Un posto al sole) che incarna perfettamente la napoletanità e offre il suo volto con ironia e credibilità. Un prodotto volutamente televisivo, dalla breve durata, che prende in giro il mezzo stesso ma allo stesso tempo lancia un messaggio semplice ma preciso e con il mezzo cinema vuole dimostrare a priori di avere ragione. Cosa molto probabile, come probabilmente vi siete persi questa chicca e altrettanto probabilmente fareste bene a recuperare.

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