In Time, una feroce demolizione del capitalismo in un film di intrattenimento intelligente ma troppo didattico

In Time, di Andrew Niccol (2011)
In un futuro prossimo è stato scoperto il gene dell’immortalità e la specie umana cresce fino ai 25 anni per poi non invecchiare mai. Dopo quest’età, però, i grandi del mondo hanno deciso che il tempo è denaro, o meglio viceversa, e ogni singolo minuto di vita diventa moneta di scambio interplanetario, e si vive in funzione del tempo stesso. Ma proprio come il nostro, questo mondo è governato da pochi che mantengono il loro tenore di vita sulle spalle dei poveri, attraverso le banche (del tempo) che governano questa preziosissima moneta a scapito dei deboli. Justin Timberlake è un novello rivoluzionario, che ha ereditato un secolo di vita e sfida il sistema di banche e capitali. La puntualità con cui questo film arriva nelle sale è svizzera: In Time sembra (e forse è) una feroce e sarcastica demolizione del sistema capital-liberistico che vige in Europa, e, non sazio di questo scenario, ci spiega un’ovvietà, e cioè che la crisi dei paesi operai, è un fenomeno controllato attraverso tabelloni stile Wall Street dal capitalismo per autosostenersi. Una volta chiara la natura politica del film, passiamo al giudizio: è un film ben costruito, ritmato, ben recitato (il fuoriclasse Cillian Murphy migliore in campo) e che strizza l’occhio a moltissimi film, di fantascienza e non (si pensi anche a Bonnie e Clyde). Niccol è bravo, vi ricordate quant’era bello Gattaca, ma sembra che indugi un po’ troppo sulla didattica del messaggio e su un gioco un po’ ripetitivo di caccia all’uomo, dando l’impressione di un film quasi più adatto a ragazzi che adulti, sensazione che è sottolineata dal fatto che questo mondo è popolato da personaggi tutti giovani, che siano figli o suocere, si tratta sempre di venticinquenni. Anche se una buona lezione di economia non guasta mai, l’occasione per creare un piccolo classico, un Blade Runner o un Brazil, è mancata, o forse mai cercata. Intrattenimento intelligente, sterile nella messa in scena, ma che ha il coraggio di raccontare e affrontare l’attuale crisi economica, travestendosi da film di fantascienza.

A lonely place to die, di Julian Gilbey (2011)
Quando un thriller non ti fa dormire sonni tranquilli, ancor prima di maledirlo, capisci già che è un grande film. Quando le emozioni non ti abbandonano nei titoli di coda, vuole dire che il film è entrato nella tua vita cinefila dalla porta principale, e difficilmente se ne andrà. A Lonely Place To Die (“Un posto solitario per morire”) non è un capolavoro, ma è proprio il genere di film che ti fa pensare quanto scritto sopra. L’inizio è già interessante per chi non ama la montagna, mozzafiato per tutti gli altri: nelle highlands scozzesi un gruppo di scalatori sta arrivando a una vetta, non senza difficoltà dovute forse a uno scarso affiatamento tra le persone. Inquadrature mozzafiato, soggettive da vertigini, i primi minuti varrebbero da soli il film. Poi il gruppo di alpinisti, in un momento precedente a un’altra scalata, trova una bimba sepolta, con la fessura per respirare, e decidono di portarla con loro. Basta trama, però per invogliarvi va detto che da qui inizia un turbine di emozioni e situazioni mozzafiato di grande intensità e di grande cinefilia: si va da Un tranquillo weekend di paura, con le highlands viste come un terreno minato, fino a sfiorare la tradizione horror del villaggio maledetto, come il connazionale e invisibile The Wicker Man. Qualche critico l’ha paragonato al connazionale Descent, in quanto l’apertissima montagna riesce a dare un senso di claustrofobia, ma in questo film la vicenda è del tutto verosimile e priva di elementi sovrannaturali. È un film recente, non distribuirlo sarebbe un delitto, ma nell’attesa ci si può godere la versione originale, coi sottotitoli italiani come sempre reperibili in rete.

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