“La casa sul mare” è come un simpatico vecchietto, “Dude” invece arriva con 15 anni di ritardo

La Casa Sul Mare FilmLa casa sul mare (di Robert Guédiguian, 2017)
Tre fratelli si riuniscono al capezzale del padre ridotto in stato ormai vegetativo da un ictus che lo ha colpito. L’incontro tra persone assai diverse sarà motivo delle solite riflessioni introspettive e intimiste del cinema francese. La casa sul mare del titolo è situata in una suggestiva cala nei pressi di Marsiglia, città dove Guédiguian ha regolarmente ambientato i suoi film, avvalendosi sempre degli stessi cinque attori, tra cui la moglie e protagonista Ariane Ascaride. Il suo cinema, ideologicamente militante tanto da valergli il titolo di Ken Loach francese, è fatto soprattutto di persone, idee e dialoghi e in trent’anni (oltre ad ambientazioni ed attori) non è cambiato di una virgola. Solo che siamo nel 2018, il primo cellulare si vede dopo mezz’ora di film e la militanza del regista si è trasformata in disillusione, pessimismo e un pizzico di nichilismo che traspare dalle tante parole e dalle azioni, a volte estreme, dei suoi (sempre bravi) attori. Un evento, strettamente legato all’attualità, cambia un po’ le cose nella seconda parte e migliora la situazione allo spettatore che risulta sicuramente più coinvolto e che permette al regista di dire decisamente la sua su immigrazione e accoglienza, qui trattati in un modo non banale, originale e fondamentalmente divertente. La scena più bella del film però è anche uno dei flashback più riusciti del cinema recente e non, e vede i protagonisti passare momenti spensierati tra loro una trentina d’anni prima: girare con gli stessi attori porta vantaggi nel tempo, perché la scena (arricchita da un Bob Dylan in sottofondo) fa parte di un film del 1985 dello stesso regista, Ki lo sa, dando un effetto realistico e suggestivo alla scena stessa e all’intera pellicola. In definitiva, La casa sul mare somiglia ai suoi protagonisti, perché è un cinema invecchiato non benissimo anche se ha una sua dignità artistica e soprattutto ideologica. Un simpatico vecchietto, ecco.

Dude (di Olivia Mich, 2018)
Dagli anziani, ai post adolescenti. Mi piacciono molto i film giovanili e giovanilisti, quelli che vedono protagonisti ragazzi alla fine del ciclo scolastico superiore e devono compiere quel salto che li porterà verso l’amato college, con l’intramontabile ballo di fine anno, amori al capolinea, amicizie al crepuscolo, cambiamenti in vista… e quasi sempre molto alcol. Dude è tutto questo, ha quattro amiche per protagoniste che passano gran parte del loro tempo a fumare erba e a riempire di pensieri e parole il loro legame, reso ancor più forte da un lutto che ha colpito due di loro l’anno precedente. Ma Dude ha un difetto dal quale non può smarcarsi: è arrivato con quindici anni di ritardo, dopo tanti film ben più efficaci, profondi, divertenti e appassionanti di questo e dopo alcune serie tv che ci hanno detto tanto sull’argomento (spero conosciate e amiate Greek, di qualche anno fa). Non c’è nulla che non funzioni in Dude (anche le quattro attrici hanno un discreto carisma), ma non c’è neanche nulla che ci faccia pensare a qualcosa di diverso o migliore nel suo genere. Resta qualche riflessione, il gradevole comportamento “politicamente scorretto” della sceneggiatura, e qualche sorriso. C’è di peggio, ma si è visto ben di meglio.

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