La fuga di Martha, un debutto pluripremiato, e ora visibile

La fuga di Martha, di Sean Durkin (2011)
Un invisibile (ma mai recensito qui) che diventa visibile è sempre una bella notizia. Il debutto cinematografico di Sean Durkin ha raccolto consensi ovunque, soprattutto al Sundance Festival, dove nel 2011 ha vinto il premio per la migliore regia. Il film si apre con, appunto, la fuga della protagonista, Martha, dal luogo in cui viveva, una casa che voleva sembrare una comune, in realtà una sorta di setta, con tanto di guru. Martha, che nel “branco” si faceva chiamare Marcy May, torna dalla sorella che, col marito Ted, ha una vita decisamente agiata, cosa che provoca indirettamente in lei un contrasto che la porterà alla paranoia. Nonostante la trama, la traduzione del titolo è un’occasione perduta: Martha Marcy May Marlene è il titolo originale e rappresenta tre fasi diverse (Marlene lo lasciamo scoprire al lettore) della vita della protagonista. Il film è raccontato con un continuo alternarsi flashback-realtà attuali e raffigurato con molte, lunghe inquadrature silenziose, con al centro sempre l’affascinante e potente figura della protagonista, interpretata dalla semi-esordiente Elisabeth Olsen, davvero straordinaria. In poche parole, la vicenda è raccontata molto bene, presenta qualche punto oscuro nella trama, che non casualmente riesce a coincidere con la confusione che si crea nella testa di Martha. Il cast, inoltre, è una bomba: oltre alla protagonista, un John Hawkes che trova la sua consacrazione attorno ai 50 anni con interpretazioni in piccoli gioielli come Me And You And Everyone We Know, Un gelido inverno e American Gangster, e sfoggia anche una meravigliosa interpretazione della ballata Marcy Song; inoltre, i comprimari non sono da meno, come Hugh Dancy (Adam) e Sarah Paulson. A questo punto è bene smetterla di girarci attorno: qua bisogna scrivere la recensione di un film che è ben fatto in ogni sua parte, che ha avuto riconoscimenti da ogni parte, ma che ha causato a chi scrive problematiche varie, che vanno dalla noia alla sonnolenza, dall’indifferenza all’irritazione. Ma qui entrano in gioco i gusti personali, che non devono influenzare il lettore, il quale deve farsi una idea propria, magari attraverso l’analisi del film priva di giudizi (prima parte). A chi dare, però, la colpa di un film non apprezzato? In questo caso nel banco degli imputati ci va il regista, oltre a una narrazione lenta e confusa, atta a compiacere e compiacersi, nel tentativo di far identificare tutti noi con la testa della protagonista. C’è chi non vedrà l’ora che finisca, c’è chi lo apprezzerà, visto che gli ingredienti sono ottimi e a qualcuno l’assenza di sale (e anima) potrebbe non dare fastidio. In uscita in sala, ma nel caso non lo trovaste dalle nostre parti (un po’ come Another Earth), in rete ci sono sempre i sottotitoli. Visibile e invisibile.

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