La meraviglia di Youth e quello strano scetticismo su Sorrentino

Youth – La giovinezza (di Paolo Sorrentino, 2015)
Cannes canna, R&D risponde. Due vecchi amici ottantenni, famosi ma per motivi diversi non più sulla cresta dell’onda, si ritrovano in una lussuosa residenza in Svizzera ai piedi delle alpi. Un direttore d’orchestra in pensione, e un regista non più ai livelli di un tempo, per la precisione. Accanto a loro un giovane e promettente attore californiano alle prese con un nuovo ruolo, la figlia del direttore d’orchestra abbandonata dal marito, Miss Universo, una coppia che non si parla, un alpinista e tanti piccoli e deliziosi personaggi minori. Il film si regge molto sulle spalle dei due protagonisti, uno stratosferico Michael Caine e un altrettanto grande e inedito Harvey Keitel, motori e baricentro (insieme all’Hotel, in simbiosi con l’Hotel) delle vicende di tutti i personaggi. Non è solo la vecchiaia a essere rappresentata nel film, ma tutti gli aspetti meno positivi della vita, fatta di ansie, dolori e incapacità, che nella residenza trovano un punto di pausa, riposo, riflessione per poi (forse) ripartire. Sorrentino era atteso al varco, ma non sappiamo neanche perché. È tra i più talentuosi e capaci registi al mondo, è da dieci anni che realizza pellicole che vanno dal bellissimo al capolavoro, ma in Italia e in Francia c’è scetticismo, che fortunatamente per il film al botteghino si è trasformata in curiosità. È curioso il nazionalismo dei francesi, che predilige premiare pellicole di cui nessuno tra due anni si ricorderà se non per la nazionalità di provenienza, come è curiosa l’esterofilia degli italiani, che al nuovo film di uno Scorsese qualsiasi (per citare, nel segno del personaggio di Keitel, un grande che da 20 anni non ne azzecca una) fa nascere una “ola”, mentre Sorrentino è semplicemente un emulo di Fellini o uno innamorato di se stesso. Eppure viene idolatrato per esempio Wes Anderson (anche qui amatissimo) che fa cose simili, che si piace in maniera altrettanto potente, che anche lui parla in modo diverso ma ugualmente convincente di Hotel, mentre il nostro Sorrentino, dio in terra per gli americani e per gli Oscar (ormai di gran lunga il premio più attendibile) non gli fanno mancare l’affetto. Nessuno è profeta in patria, se si è italiani. Youth ha una prima parte fantastica con dialoghi incredibili e frasi che entreranno presto nell’immaginario generale; ha una seconda parte inevitabilmente più drammatica e pesante, vista la tematica trattata dal film; ha scene piccole e memorabili, come quelle nel negozio degli orologi a cucù o una con protagonista un cannocchiale. Interessante il finale, che non sveliamo, ma che restituisce un certo ottimismo ai suoi personaggi più deboli, senza perdere cinematograficamente il perfetto senso di coralità fino qui sentita. Youth ha uno stile che potrà non piacere, certamente, ma che costituisce qualcosa di molto diverso dalla Grande bellezza, dove al centro era l’uno/ego, mentre qui c’è un’intera fetta di umanità alle prese coi propri problemi. Sorrentino non è minimalista come Moretti e solo per questo meriterebbe un’ora al giorno di ringraziamenti e preghiere, è uno che non nasce tutti gli anni, ha un talento fuori dal comune. Solo, bisogna svestirsi dei propri abiti ed entrare in un mondo fantastico e incredibile da scoprire. D’altronde, questo è il cinema.

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