La “storia di un matrimonio” poco empatica e in fin dei conti noiosa

Stroia MatrimonioStoria di un matrimonio (di Noah Baumbach, 2019)
Cinema casalingo, giocoforza.
Seguo Baumbach fin dagli inizi de Il calamaro e la balena, soprattutto grazie a un bel film indipendente (e da noi invisibile nei cinema ma reperibile in streaming, qui già recensito) dal titolo Frances Ha e al successivo Giovani si diventa (distribuito in sala e facilmente reperibile). Soprattutto in questi due film il regista dichiara la sua cifra stilistica e, senza troppo nasconderlo, il suo grande amore sia per Truffaut che per il Woody Allen meno comico e più introspettivo, alla Manhattan per intenderci.

Baumbach si è imposto in patria come autore di commedie intellettuali, borghesi e parecchio newyorkesi che la nostra distribuzione ha avuto il piacere di ignorare, visto che avrà pensato che in fondo per noi Allen è un signor nessuno. Storia di un matrimonio però approda al Festival di Venezia e il regista viene finalmente considerato tale, con un film con un cast all star e con una distribuzione a cura di Netfilx che ce lo consegna direttamente in casa (e in questo periodo fa proprio comodo).

Storia di un matrimonio in realtà la storia di un divorzio, che a differenza del suo primo film – il già citato Il calamaro e la balena che viveva la vicenda autobiografica dalla parte del figlio – è raccontato in primissima persona dalla coppia formata da Adam Driver e Scarlett Johansson.
Ambientato nel mondo dell’arte visiva, tra teatro (lui) e serie tv (lei), il regista inevitabilmente e abilmente mescola il tema della recitazione (quindi ambito meta cinematografico) con la realtà che riguarda i protagonisti; affida quindi la “regia” del divorzio a un trio (scoprirete poi perché) di avvocati che prenderanno in mano le redini sia della coppia che del film stesso, grazie anche all’enorme statura di Laura Dern (Oscar), Alan Alda e Ray Liotta.

Il film quindi parte da situazioni già ampiamente sfruttate dalla settima arte (Kramer contro Kramer, Bergman), per introdurre elementi insoliti e che gli danno una forza di originalità. Il grande limite è il coinvolgimento: nessuno credo possa dire che le due ore e quindici non siano vero cinema, ma la forzatura e la convinzione per la ricerca di uno stile personale ma freddo non possono che produrre noia.
Si fatica molto ad entrare nei personaggi del film, la cui mancanza di empatia costituisce una barriera insormontabile, e il continuo dialogare e analizzare la psicologia degli stessi finiscono per tagliarci del tutto fuori e farci guardare costantemente l’orologio per sapere quanto manca.
Un eccesso di “spocchia” che non è mai mancata al regista, ma che qui raggiunge il suo apice: Storia di un matrimonio piacerà ai critici, piacerà a coloro che riusciranno a entrare nelle menti dei protagonisti, annoierà gli altri.

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