La talpa, grande cast, dialoghi serrati e una mirabolante appendice…

La talpa, di Tomas Alfredson (2011)
Mai come in questo caso va immediatamente specificato il genere del film: spionaggio. Seconda premessa: il titolo italiano è frutto di pigrizia, visto che la talpa a cui si dà la caccia nel film è da ricercarsi tra uno stagnaio, un sarto, un soldato e una spia… Tinker, Tailor, Soldier, Spy, il titolo originale. Londra, 1973: a un vecchio agente in pensione viene affidato l’incarico di trovare una talpa all’interno dei servizi segreti, che probabilmente ha instaurato una rete di comunicazione col temuto KGB. L’ambientazione è ricreata così bene, che sembra di assistere realmente a un film di spionaggio degli anni settanta americani: la recitazione è impeccabile ed è una gioia poter rivedere Gary Oldman ad alti livelli; la regia di Alfredson, reduce dal bellissimo Lasciami entrare, è elegante e misurata e davvero ti apre una gradita porta nel passato per farti gustare ogni scena del film. Insieme al grande cast, i co-protagonisti sono i dialoghi, tanti, impeccabili, troppi, serrati nel ritmo e soprattutto nel contenuto, che impongono allo spettatore un’attenzione massima per tutte le due ore di proiezione: li amerete in un istante, e qualche minuto dopo sarete con la vostra mente a implorare riposo. Il conflitto trova una sua coerente risoluzione in un finale che mette tutti i tasselli a posto, ma il film è tutt’altro che finito e nella sua straordinaria, emozionante e mirabolante appendice, che, finalmente senza alcun dialogo ma anzi sulle meravigliose note de La mer di Julio Iglesias cambia letteralmente prospettiva alla pellicola, spogliandola della sua verbosità e complessità, mostrando una sequela di immagini dei suoi protagonisti totalmente spiazzante ed entusiasmante, mettendole uno dei più bei punti esclamativi della storia del cinema. Un pubblico vero dovrebbe alzarsi e ballare, tale è l’entusiasmo trasmesso da questi ultimi minuti che valgono da soli il film. Ma anche il resto è di qualità, ma forse un terzo spettacolo è meglio evitarlo, se è permesso un consiglio.

Small town murder songs, di Ed Gass-Donnelly  (2010)
Testi di Cormac McCarthy, musiche dei fratelli Coen. Pazienza per l’originalità ma le premesse sono davvero ottime, visto che la coppia ha già partorito Non è un paese per vecchi. La trama è presto fatta: in un villaggio canadese, un poliziotto dal passato violento ma convertitosi alla cristianità, deve indagare sull’omicidio di una donna. Protagonista del film, un attore feticcio dei fratelli Coen, Peter Stormare, volto di Fargo. E proprio come in Fargo, e (con un po’ più di azzardo) in Twin Peaks, sono la location, il villaggio, la comunità a dominare il film. In un altro contesto, la storia non si svilupperebbe in un certo modo, le vicende e i personaggi vivrebbero di vita diversa. È questa la forza di Small Town Murder Songs, opera seconda di Ed Gass-Donnelly, promettente canadese di trentacinque anni, premiata all’edizione 2010 del Torino Film Festival, e ovviamente ignorata dalla distribuzione italiana. Altra colonna del film è la figura del protagonista, un uomo fragile che ricadrà nel dramma di un passato che aveva deciso di mettere da parte, una vicenda che dà una forza magnetica e un gusto superiore alla pellicola stessa, retta anche da una colonna sonora di alto livello. Ci sono tempi morti, è vero, dati da lunghi silenzi, quasi come se il regista lasciasse alla coppia Stormare-Villaggio (non Paolo, ma la cittadina) le chiavi della vicenda e se ne andasse. Il meccanismo non perfettamente oliato è compensato dalla durata: 75 minuti passano che è un piacere e si concedono a qualsiasi film, peccato che non esista da noi se non in lingua originale con i sottotitoli scaricabili in rete, as usual.

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