La (violenta) lezione di un maestro e il ritorno di un oggetto di culto

Killer Joe, di William Friedkin  (2011)
Texas, giorni nostri. Chris è un piccolo spacciatore, che non brilla per intelligenza e furbizia, e si ritrova con un grosso debito che non può saldare. E allora al giovane, supportato dal padre, viene la brillante idea di assoldare un killer che uccida la madre, fuggita da tempo dalla famiglia. Solo che il killer è l’eccentrico Joe (un grande Mattew McConaughey), implacabile e inflessibile sui pagamenti, mette gli occhi sulla sorella di Chris, che dichiara 12 anni ma ne ha qualcuno in più, ma che certamente rappresenta il fiore candido di “famiglia”. Friedkin a 76 anni non smette di stupirci, dopo essersi consegnato alla storia con Il braccio violento della legge, L’esorcista e Vivere e morire a Los Angeles. Killer Joe è tratto da un’opera teatrale del premio Pulitzer Tracy Letts, e da lei adattata sullo schermo, non è una semplice, appassionante e ultraviolenta storia di odio e denaro, ma un film di grande respiro che pur non innovando, rispetta le regole del genere riuscendo però a dare un preciso e spietato contesto alla vicenda narrata. Il Texas dei redneck, termine dispregiativo con cui vengono chiamati gli americani sudisti, poveri e razzisti, ci viene presentata come terra desolata, senza regole e senza speranza. Lo stile del film è assai vicino a quello dei fratelli Coen, da Blood Simple fino a Non è un paese per vecchi, che hanno ispirato lo  schema narrativo che prevede che la forte e gradita ironia iniziale prenda il posto a un’escalation di violenza. Anche il protagonista, il killer Joe, è personaggio eccentrico che ricorda alcune macchiette coeniane, in primis il Jesus di Turturro del Grande Lebowski. Il cinema di Friedkin ha ispirato tanti autori americani, e l’anziano autore riporta a sè le diverse esperienze di questi anni, sia come regista che come… ispiratore, e il risultato è che Killer Joe è un grande film; non per tutti però, soprattutto per la forte carica violenta della lunga, bellissima e disturbante scena finale, che chiude magistralmente quello che inizialmente sembra un film ben più leggero del genere, come può essere uno Snatch (pur sempre un bel film). Complimenti al Maestro e grande sorpresa nel constatare che nel 2011 (un annetto di ritardo ce lo siamo concessi, qua in Italia) si sono riuscite a vedere ancora opere così sporche, incisive, ironiche, violente e cattive. Il signor Tarantino ne ha fatto un biglietto da visita, ricordiamoci però che qualcuno lo faceva già da un po’.
Avviso ai naviganti: Martedì 30, just for one day, arriva in sala in versione digitale, remasterizzata… insomma con una veste nuova The Rocky Horror Picture Show. Siccome la rubrica non si chiama “cult e stracult” o “banalità e dintorni” si ritiene inutile una recensione vera e propria, ricordando che l’opera è sicuramente la versione cinematografica di un musical meglio riuscita della storia ed è un vero e proprio oggetto di culto. L’opera lanciò l’attrice Susan Sarandon, qui anche magnifica cantante, mentre non riuscì a costituire un trampolino per nessun altro dei protagonisti, relegati tra produzioni televisive e oblio. Lo stesso protagonista, il fantastico Tim Curry ebbe qualche parte di discreta rilevanza, ma non esplose per quanto il suo talento meritava. Le impronte del suo fascino si vedono soprattutto nel bellissimo e sottovalutato film sul gioco Cluedo (Signori il delitto è servito) e il kinghiano televisivo It, film di cui si ricorda solo un magnifico e inquietante clown: lui. L’esortazione, quindi, è di andare, magari travestiti, magari con voglia in sala di alzarsi, ballare, rispondere… questo è il Rocky Horror, let’s do the time warp again!

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