Lo scrittore Carrisi e un thriller dal grande potenziale (non sfruttato)

La ragazza nella nebbia (di Donato Carrisi, 2017)
Nelle puntate precedenti, parlando di Stephen King, si è citato il difficile rapporto che spesso si instaura tra il regista di un film e l’autore del libro da cui è tratto, semplicemente perché le parti in causa spesso non capiscono la profonda differenza tra le due arti. Lo scrittore Carrisi va addirittura oltre e decide di debuttare sullo schermo portando uno dei suoi romanzi gialli di maggiore successo. In un paese immaginario sparisce una ragazza di 16 anni e a condurre le indagini viene chiamato il commissario Vogel, noto (e per questo poco stimato) per il forte rapporto che instaura con i media nel procedere delle indagini, in linea di massima (le sfumature le scoprirete nel film) spinto dall’idea che il richiamo mediatico possa agevolare la situazione. Il film è però presentato in una struttura a flashback partendo dalla scena in cui lo stesso commissario è dentro l’ufficio di uno psicologo (Jean Reno), in quanto stordito dopo un incidente stradale: scena che ricorda tantissimo lo straordinario thriller di Tornatore, Una pura formalità. I modelli per il debuttante Carrisi non finiscono qui, perché nel paesino immaginario di montagna si trovano momenti di Twin Peaks e Fargo, tanto per fare due nomi, creando l’atmosfera perfetta e ben supportata dagli attori che caratterizzano e “abitano” il luogo, in primis l’agente Mayer di Michela Cescon. Dopo un primo tempo davvero interessante in cui si snoda in maniera felicemente tradizionale la vicenda gialla, nella seconda parte il film cambia sia punto di vista che protagonista, e di conseguenza identità: il racconto si fa pesante e il regista non riesce a gestire, man mano che passa il tempo (e il film dura due ore e dieci, troppo) l’intreccio creato abilmente nella prima parte, allungando scene non indispensabili e creando non poca confusione nel procedere del giallo. Lo spettatore inevitabilmente si disorienta e inizia a guardare sempre più spesso l’orologio in attesa del finale, che comunque si desidera conoscere. È proprio il finale, avvincente e interessante anche nella critica sociale sul rapporto tra indagini e televisione, a riscattare solo parzialmente la pesantezza della seconda ora, che neanche due attori del calibro di Toni Servillo e Alessio Boni riescono a snellire. Non tutto alla fine torna, e non tutto sembra coincidere in un film dal grande potenziale, che complessivamente è comunque da vedere perchè qui la soggettività potrebbe farla da padrona. L’occasione a mio avviso è mancata perchè un thriller così lo avrei dato in mano agli americani, come nel caso dello svedese (aggettivo in questi giorni funesto) Uomini che odiano le donne, che in mano a David Fincher si è trasformato da potenziale buon thriller a grandissimo film. Perchè non provare?

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