Neorealismo? Con Project X basta dimenticare il titolo italiano

Project X, di Nima Nourizadeh (2012)
Premessa doverosa: per senso di decenza non verrà qui citato l’indegno sottotitolo italiano del film, tanto se lo volete guardare saprete riconoscerlo. Project X era il nome in progress, in attesa di un titolo definitivo che non è mai arrivato, e racconta di una festa assolutamente folle, e delle sue conseguenze, organizzata da quattro diciassettenni. Con la trama ci fermiamo qui, con la consapevolezza che, se nelle prossime righe non si scriva qualcosa di accattivante, il film verrà visto  soltanto da qualche post adolescente che da qualche parte leggerà il sottotitolo. In realtà i motivi d’interesse nel film stanno nella sua realizzazione: Project X ha un cast formato da tutti attori dilettanti e debuttanti ed è stato girato con la tecnica della ripresa diretta, con la vicenda vista in soggettiva da uno dei protagonisti (sempre lo stesso). Un po’ come Chronicle, ma con la differenza che l’azione qui è ripresa in diretta. A dire la verità il regista, debuttante, si è avvalso anche di alcune scene girate con i cellulari, visto che ogni tanto la soggettiva cambia. Tutto questo per dare qualcosina di nuovo, e cioè un senso di realismo alla vicenda, che in effetti appare allo spettatore come un documentario vero e proprio. Neorealismo? Quale differenza tra i neorealismi storici, italiani e americani? Due: sceneggiatura e progresso. Se i mezzi di ripresa corrispondono esattamente alla realtà attuale, è sulle tematiche che si radica la differenza: dai drammi reali del dopoguerra o depressione, a una ludica analisi della realtà contemporanea. Sempre realtà è, ci mancherebbe. Tirando le somme, il film fa ridere ma non troppo, anzi si configura come una sorta di thriller, dove il padrone di casa è vittima di un evento che col passare dei minuti diventa sempre più grande, assurdo e incontrollabile per il povero protagonista, la cui involuzione riesce a trasmettere allo spettatore una certa inquietudine. Che piaccia o meno, è difficile dirlo: non è bello, né innovativo, e gli attori non sono né Aldo Fabrizi né Anna Magnani… però riesce a raccontare, tramite una serie di eccessi magari non pensabili se non separatamente, la nuova generazione. E non è poco.
Se ci pensiamo, il “party movie” ha parenti lontani: se Hollywood Party non aveva particolari esigenze epocali, già il grande Animal House racconta effettivamente una generazione, tramite eccessi che ai tempi sembravano fuori luogo e che oggi appaiono teneri e innocui. Negli anni Ottanta i vari Porky’s hanno pur senza stupire portato avanti il discorso delle feste, che in realtà aveva in Fandango la punta di diamante del decennio. Il tutto fino ad arrivare alla fatidica Una notte da leoni, di quel Todd Philips che qui è produttore, che ha avuto la genialità a livello di sceneggiatura, di non descrivere i fatti narrati del film se non mostrarne le conseguenze il giorno dopo. E, pur coi suoi limiti, Una notte da leoni ha tracciato un percorso, o per dirla in modo meno radical chic, ha fatto tornare la gente al cinema. Qua siamo nella sperimentazione, ma pur sempre davanti a un genere.
Massimo rispetto e andiamo a renderci conto al cinema di come sia veramente una festa… che spacca!

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