Per il Festival Opera, parliamo di cinema
sul lavoro e sul mondo operaio

Anni duri (Gian Vittorio Baldi, 1977)
Realizzato con tecnica documentaristica, Anni duri parla dell’esperienza dell’operaio Giovanni Dozzo alla Fiat di Torino. Pur prodotto dalla Rai, il film non vide mai la luce al cinema, e capirete presto il perché. 

Dozzo era un attivista sindacale e un iscritto al Partito Comunista, e la voce narrante dello stesso regista segue con attenzione le sue disavventure nella sua breve carriera nella fabbrica torinese. Le voci “contro” dello stabilimento venivano trasferite in un reparto denominato Officina 24, una sorta di ghetto per perseguitati politici, mentre il passo successivo era rappresentato dal licenziamento, una minaccia che aleggia per tutto il film. In quegli anni alla Fiat vennero licenziati circa 2000 operai iscritti alla Fiom. Invisibile al cinema, il documentario ha avuto in tutto due passaggi televisivi in 30 anni, sempre a orari proibitivi. L’occasione d’oro è data dalla proiezione al Teatro Socjale di Piangipane giovedì 26 maggio sera.

Chi lavora è perduto! (Tinto Brass, 1963)
L’opera prima di Tinto Brass è molto lontana dai generi che lo hanno portato alla fama. Questo film, che la censura fece intitolare successivamente In capo al mondo, narra del neo diplomato Bonifacio, che non riesce a inserirsi nel mondo del lavoro, un po’ per scarsa predisposizione, un po’ per la rigidità della società descritta, rappresentata da una Venezia monotona. Amaro, divertente, anarchico, datato, neorealista: questi e altri aggettivi per un’opera prima sgangherata come il suo protagonista, eppure efficace. Il montaggio spezzato unito a una descrizione dell’emancipazione umana lo fanno accostare al cinema di Rossellini e Godard, paragone un po’ azzardato ma che sottolinea l’intelligenza di un’opera prima convincente e politica. Ai tempi Brass veniva posto accanto al Bertolucci di Prima della rivoluzione: non so se il paragone gli sia rimasto indigesto, fatto sta che la sua carriera ha preso tutt’altra direzione. Irreperibile, se non forse nella rete di chi l’ha registrato dalla tv.

Hanno cambiato faccia (Corrado Farina, 1971)
Torino. Giovanni Nosferatu, il proprietario della più importante casa italiana di automobili, non è altri che in realtà un vampiro che toglie ogni linfa vitale alle sue vittime. La frase finale del film, «il terrore, oggi, si chiama tecnologia», dice tutto su un horror sociale, atipico e geniale, sul mondo degli operai. Estremamente politico (anche se nel film Giovanni non licenzia il povero Dozzo di Anni duri) e ammiccante al sessantotto italiano, l’opera prima di Farina è a tutti gli effetti un film di genere a metà tra i vampiri e gli zombie di Romero, quest’ultimo influente sullo stile metaforico. Tra le trovate più divertenti, il gruppo delle inflessibili 500 messe a guardia della casa del padrone, e la partecipazione alle riunioni da parte di tutte le classi sociali, Chiesa inclusa. Una grande performance di Adolfo Celi completa una chicca da non perdere, contando che si tratta di una realizzazione a basso costo. Dei tre film è anche il più reperibile, visto che è stato stampato in Dvd, anche se non molto facile da trovare… se non nei cestoni o in qualche… rete.

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