Pietà: da guardare mettendosi in gioco come se fosse il primo film

Pietà, di Kim Ki-duk (2012)
Prima di parlare del Leone d’Oro della Mostra del Cinema di quest’anno, occorre fare una premessa: il cinema coreano che arriva da noi, soprattutto dei suoi autori più noti (Kim Ki-duk e Park Chan-wook, il regista di Mr e Lady Vendetta, e di Old Boy) costituisce un genere a parte, un modo di rappresentare la realtà tramite eccessi, un po’ come i pittori che saturano i propri colori, come i poeti che calcano sulle loro parole, come i musicisti che cercano sonorità non usuali. L’approccio a questi film non può essere quello “occidentale”, dove una storia di questo genere, verrebbe messa in scena in maniera completamente diversa, bensì un mettersi in gioco come se fosse il primo film mai visto. E alla fine è difficile restare indifferenti, dividendosi tra chi ha ricevuto grandi stimoli e chi non. Pietà narra la storia della solitudine di un violentissimo strozzino, che in una Seul messa in ginocchio dalla crisi, compie le sue azioni senza quella pietà cantata dal titolo, fin quando un giorno non riceve una visita speciale. Film dai due volti: a una prima parte caratterizzata da una violenza apparentemente fine a se stessa, mettendo a dura prova le capacità di comprensione e sopportazione dello spettatore, si contrappone un potente ed esaustivo secondo tempo, che riesce a mettere perfettamente a fuoco tutti gli elementi sparsi per la storia. Per chi conosce il regista, non si tratta di nulla di nuovo nelle sue tematiche, ma al di là delle emozioni provocate da questi splendidi 105 minuti, va sottolineata anche la molteplicità di tematiche trattate dal film: si parla di soldi e del loro potere, si parla di capitalismo e di una società da esso sconfitta; ma si parla anche di vendetta, compassione e, appunto, pietà; inoltre ci sono solitudini incontri, e distacchi. Giri di parole, in queste righe, messi per non svelare nulla di una trama che va gustata minuto per minuto. Un film che va visto assolutamente, seguita la dovuta e doverosa premessa in alto. Difficile, però, digerire il doppiaggio di un film asiatico.

Ferro 3, di Kim Ki-duk (2004)
Il più amato dei film di Ki-duk è una storia d’amore e solitudine, che vede come protagonista un anomalo “abitatore” di case che sa essere vuote: le vive senza rubare nulla e anzi cerca anche di sistemare guasti e difetti. Una di queste case però non è vuota, ed è abitata da una coppia con una moglie vittima della violenza del marito. Tra la donna e il bizzarro abitatore scoppia una storia d’amore raccontata da un film fatto prevalentemente di immagini e silenzi, con pochissimi dialoghi, ma che riesce a rendere ogni scena un bellissimo affresco (il regista è anche pittore, e si vede) di sentimenti talmente forti da sembrare invisibili. Disponibile in dvd.

Address Unknown, di Kim Ki-duk (2001)
Il capolavoro invisibile del regista coreano, trionfatore morale di Venezia 2001 (Moretti gli preferì Monsoon Wedding…) e trasmesso solo dalle reti satellitari e su Fuori Orario (sottotitoli disponibili in rete). Il film è la storia drammatica di tre personaggi, ambientata a Pyongtaek, caratterizzata da povertà, violenza e creudeltà. Una sorta di neorealismo narrato però con lo stile asiatico già descritto sopra. Storie appassionanti, recitazione di alto livello, scene molto forti e molto emozionanti. Da ripescare.

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