Quando un regista diventa un genere a parte…

MOONRISE KINGDOM, di Wes Anderson (2012)
Wes Anderson è un grande, mettiamo subito le cose in chiaro. La sua filmografia (I Tenenbaum, Il treno per il Darjeeling) parla chiaro e le innovazioni che ha portato nel mondo del cinema sono tante e tutte gradite. L’incipit di questo film è portentoso, con la presentazione dei nostri due adolescenti protagonisti, totalmente disadattati nei loro ambiti, familiare per Suzy, scoutistico per l’orfanello Sam. Siamo nel 1965 in una delle isole del New England in un mondo che il regista ha creato completamente a sua immagine e somiglianza estetica. Proprio come recita il sottotitolo, i due spariscono insieme per una fuga d’amore, e tutta la prima parte del film si concentra sulla ricerca dei personaggi, curata dal capo scout Edward Norton, dallo sceriffo Bruce Willis e dal patrigno di Sam, Bill Murray. Un cast, come sempre nei film di Anderson, eccentrico e stellare, con la conferma dell’attore feticcio Murray e un gruppo di grandi attori da tempo assenti dai riflettori (alcuni da scoprire durante la visione). Una colonna sonora diversa dai film precedenti: all’ex leader dei Devo Mark Mothersbaugh, il regista preferisce il francese Alexandre Desplat, ai pezzi british che hanno fatto la storia del rock, preferisce il country di Hank Williams o il pop francese di Françoise Hardy. Il mondo di Anderson, però, non cambia: disadattati in un contesto di disadattati che fanno a gara per fuggire dalla normalità, personaggi eccentrici che cercano una felicità attraverso la solitudine. Questa volta però la storia sembra ancor meno importante del mondo rappresentato, impregnato di estetica pop (termine che fa molto figo e che nessuno a parte il regista abbia idea di cosa voglia dire) e ricchissimo di colori e con una cura estrema per ogni particolare e per ogni singola inquadratura. Il binocolo, con cui Suzy osserva il suo mondo, è lo stesso strumento che usa Anderson per mettere in scena i suoi, un mondo che può piacere o meno, che non a tutti risulta così comprensibile o intrigante, che durante il film dà ogni tanto qualche segno di cedimento. Ma Wes Anderson, oltre a essere un regista, è un genere a parte: prendere o lasciare.

THE BROTHERS BLOOM, di Rian Johnson (2008)
“A chi trova stuzzicante un frullato di Wes Anderson, Omero e James Joyce”, recita lo slogan non della locandina del film, bensì del (consigliatissimo) libro Dispersi (ed. Falsopiano), in quanto ci apprestiamo a parlare dell’ennesimo film inedito in Italia. Stephen e Bloom sono due fratelli truffatori, che continuano nelle loro imprese finchè Bloom si innamorerà della vittima di turno. Una trama standard, per una storia standard, rappresentata in modo tutt’altro che standard, sotto forma di favola irreale (o “truffa”) che fin dall’inizio non chiarisce il confine tra la realtà dei fratelli e la nostra. Un gioco sicuramente troppo lungo (quasi 2 ore) ma non privo di fascino e divertimento, grazie anche al fantastico cast che comprende Adrien Brody, Mark Ruffalo e soprattutto le splendide Rachel Weisz e la vera mattatrice del film, Rinko Kikuchi, nota per il film Babel. L’inizio è paradossalmente simile a Moonrise Kingdom, con tanto di narratore fuori / dentro il campo (scoprirete il perchè durante il film), per poi passare dal divertente al cerebrale, caratteristica che deve aver spaventato i distributori. Peccato, perchè è un bel film, divertente ed è soprattutto una grande sfida per lo spettatore capire il confine tra il vero e il falso, in un rapporto simile a quello tra sogno e realtà in Inception. Da recuperare, i sottotitoli italiani si trovano in rete.

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