Quel ritratto di Jackie che somiglia a un’istantanea

Jackie (di Pablo Larrain, 2016)
Larrain sta diventando un “cliente” abituale di questa rubrica, visto che i suoi film suscitano sempre forte interesse e la sua mano sembra davvero essere tra le più felici di questa nuova generazione cinematografica, grazie soprattutto alla trilogia sulla dittatura cilena formata da No, Il Club e Neruda. E proprio dopo quest’ultimo lavoro biografico, il regista esce dalla sua patria per sbarcare a Hollywood, e lo fa nuovamente con una sorta di biografia su un personaggio molto diverso dal precedente ma altrettanto noto come Jacqueline Kennedy. Ma ciò che intende Larrain per “film biografico” è qualcosa di davvero distante, sia dalla nostra, che dalla visione hollywoodiana del genere, perché al regista non interessa la vita, l’epopea e la narrazione dei fatti, ma si concentra su pochi particolari per costruire un ritratto non esaustivo ma che piuttosto somiglia a un’istantanea. Jackie è ambientato nei giorni successivi all’assassinio di John Kennedy ed è narrato attraverso un’intervista, che permette alla vedova tramite flashback di raccontarsi e trasmettere le sue emozioni, sensazioni non solo politiche (anche se il regista si “intromette”), ma principalmente di carattere intimista. Certo, affidare la regia a Larrain significa spendersi politicamente, ma il film mantiene sorprendentemente il punto di vista della donna, la più importante e vicina al drammatico evento da cui gli Stati Uniti non si sono ancora evidentemente ripresi, visto che la cinematografia “kennediana” sta acquistando dimensioni fin troppo smisurate. Natalie Portman si mette letteralmente nei panni della vedova e dona anima e corpo al film, diventandone indispensabile fulcro della scena. Il film assume una dimensione particolare, perché potrebbe deludere chi cerca una lettura politica da un regista non statunitense e certamente schierato; d’altra parte sorprende in positivo la voglia di raccontare un pezzo purtroppo fondamentale di storia americana attraverso gli occhi di una donna e della solitudine a cui fu abbandonata da chi aveva fretta di vincere una temporanea corsa al potere. Un Larrain molto diverso dalla voglia di rivoluzione. In sala.
Young Adult (di Jason Reitman, 2011)
Da una donna realmente esistita, a una (fortunatamente) di fantasia, ma che il cinema ha reso una figura interessante, complessa e soprattutto verosimile a molte persone. Mavis è una donna di successo professionale, scrive libri per bambini e forse un romanzo per adulti, ma insoddisfatta della propria vita sentimentale (ha divorziato) e personale, tanto che si rifugia nei soliti vizi. Invitata dall’ex fidanzato del liceo per il battesimo del figlio, torna nel paesotto d’origine con la folle idea di riconquistarlo. Si scontrerà con qualsiasi cosa, perché tutto è cambiato, dall’ex fidanzato alla realtà di provincia che più non sopporta; questo sbattere la testa potrebbe però portarle un qualcosa che potrebbe farla ricominciare: la consapevolezza. Reitman è un regista in gamba (Juno) e Charlize Theron è una meraviglia per gli occhi e per il palato cinematografico: Young Adult è un discreto film, carico di amarezza e di sincera visione della realtà, perché fotografa bene il passaggio di età dagli “enta” agli “anta” e racconta sia una realtà territoriale che umana. Il passo del film è lento, contrariamente a quello nervoso della sua protagonista, ma non riesce ad annoiare grazie alla breve durata. Merita un’occhiata, in dvd o streaming (legale).

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