Report Veneziano, buona la qualità dei film ma il capolavoro è rimasto a casa

“Che ti frega, quando c’è un film che non ti piace, vai a fare un giro a San Marco”. Cari amici, e siete tanti che una cosa simile l’avete detta con ingenuo affetto, non è così. La Mostra del Cinema di Venezia si svolge su un’isola chiamata Lido di Venezia e dista dalla città ben 40 minuti di traghetto. Quindi, in linea di massima, chi va al Lido, ci resta.
Il Lido è bruttino, va detto. A parte qualche albergo di lusso, non si discosterebbe molto dai nostri lidi meno brillanti, con l’aggiunta che si mangia peggio di qualsiasi altro posto al mondo (provate per credere) e che la gente che ci abita odia il prossimo.

 

Il mio soggiorno è durato solo dal 2 al 6 settembre, quindi i film che mancano in questa lista sono stati presentati prima o dopo questo periodo. L’organizzazione è sempre quella, chi ha letto i report precedenti lo sa. Marco Muller è un grandissimo professionista, un direttore ideale, ma che ha sempre il vizio di anteporre lo star system al popolino delle persone normali.

 

Buona la qualità dei film, davvero, anche se il capolavoro è rimasto a casa, e come di consuetudine non ho visto il leone d’oro: Faust di Aleksandr Sokurov.

 

Ancora una volta, il problema del cinema in Italia non sono i film, ma i loro critici, veri e propri disadattati sociali (uno davanti a me ha impiegato 8 minuti per scegliere tra un panino al salame e uno alla mortadella) che non avendo contatti con la realtà, ne immaginano e sognano una tutta loro. E’ chiaro che fischieranno sempre i melodrammi italiani (vedi film della Comencini che non ho visto), perché al di là del fatto che spesso sono bruttini, non hanno la benchè minima cognizione di cosa possa succedere alle persone normali. Per loro vedere il film della Comencini era come essere davanti a E.T.

 

Paesi in gara: riscossa Francia, fa piacere l’ottima presenza della Grecia, terribile l’Asia (a cui sono parzialmente allergico, cinematograficamente parlando), peccato mancasse il nord Europa e anche la Spagna. Bene Inghilterra e Stati Uniti.

 

I FILM

 

Venezia 68 – In Concorso

 

A DANGEROUS METHOD (Un metodo pericoloso, David Cronenberg – Usa)

All’alba della prima guerra mondiale, tra la Svizzera e l’Austria la psicoanalisi diventa realtà attraverso lo scontro tra il giovane Carl Jung (Michael Fassbender, segnatevi questo nome) e il suo maestro Sigmund Freud (Viggo Mortensen). Figura centrale, la bella paziente Sabina Spielrein. Tante parole, tante cup of tea, e storia anche interessante ma poco coinvolgente. Keira Knightley è pessima, non è proprio capace di fare la pazza, mentre i due protagonisti maschili sono adeguati. Non ci si spiega perchè sia venuto fuori un film così, a meno di non inventarsi una storiella: James Ivory si accorda con Cronenberg affinchè quest’ultimo firmi il suo ultimo film. Lo scopo ci è ancora ignoto, ma occhio al prossimo film di Ivory… 5.

 

POULET AUX PRUNES (Pollo alle prugne, Majane Satrapi e Vincent Paronnaud, Francia)

Teheran, 1958. Il violinista Nasser non riesce a sostituire il suo strumento prediletto, che è stato accidentalmente rotto, e cade in depressione. Nella sua ultima settimana di vita, si capirà il perché di questo suo stato grazie a una narrazione straordinaria, surreale (Amelie), con montaggio atemporale (Tarantino) e con una vena poetica (Burton) strappalacrime. Citati i maestri, il primo film con attori in carne e ossa della Satrapi è una miscela meravigliosa di generi ed emozioni, provocando nel giro di pochi minuti sensazioni totalmente opposte nello spettatore: insomma, si ride e si piange. Il protagonista Mathieu Almaric è bravissimo, ma la palma personale va alla nostra Chiara Mastroianni, in un piccolo, esilarante e geniale ruolo. Per tutti, ma proprio tutti. 8.

 

ALPIS (Alpi, Yorgos Lanthimos, Grecia)

Alpis è una “società” formata da un paramedico, un’infermiera, una ginnasta e il suo allenatore. Il servizio consiste nel sostituirsi alle persone morte per alleviare il dolore di chi è stato loro accanto nella vita. La disciplina del gruppo è ferrea, e qualcuno non la rispetterà. Geniale fin dalla trama, Alpis è uno di quei film che non dimentichi: originale, con personaggi inquietanti e interessanti, con risvolti pesanti ma non melodrammatici. La freddezza della messa in scena (Haneke docet), unito a un senso di forte realismo dato a una vicenda surreale, sono i punti di forza del film, che ogni tanto ha cadute di ritmo nonostante la breve durata. Imperfetto ma da vedere, se ci si riuscirà. 7,5.

 

TINKER, TAILOR, SOLDIER, SPY (La talpa, il sarto, il soldato, la spia, Tomas Alfredson, Gran Bretagna)

Anni 70, nei servizi segreti di Sua Maestà c’è una spia, una cosiddetta “talpa”. Restringendo il campo a quattro colleghi, il protagonista George Smiley (il redivivo e ottimo Gary Oldman) fruga nel loro passato e ne tesse con abilità la rete di rapporti tra loro. La premessa che il film è tratto da La Talpa di John Le Carré è d’obbligo, perchè giustifica l’eccessiva verbosità del film e una certa macchinosità negli ingranaggi: non potete permettervi di distrarvi un secondo, perchè allora è finita. Però il film funziona e tiene bene lo schermo, grazie al cast che comprende anche John Hurt, Colin Firth, Tom Hardy e soprattutto Svetlana Khodchenkova, che nessuno sa chi sia, ma fidatevi che vale da sola il prezzo del biglietto. Finale “disco dance” memorabile. 7.

 

SHAME (Vergogna, Steve McQueen, Gran Bretagna)

Brandon è un trentacinquenne di successo: il successo con le donne e nel lavoro sono motivo di una vita potenzialmente agiata. Ma Brandon è incapace di gestire la sua vita sessuale, e l’arrivo della sorellina lo destabilizza ulteriormente. Michael Fassbender, premiato come miglior attore, è il centro e il motore del film: la sua perfetta interpretazione del personaggio (che sembra uscito da un libro di Bret Easton Ellis) ci aiuta a entrare in un film ostico, secco, poco dialogato ma straordinario. La natura di quest’uomo è rappresentata, sia nel corpo dell’attore, sia nei suoi atteggiamenti, in modo chiaro e lampante: lo seguiamo per tutto il tempo come se fossimo accanto a lui e le sensazioni più diverse (non solo vergogna, ma anche disgusto) entrano senza filtri. Era tempo che al cinema non ci si emozionava per un film assolutamente freddo. 8.

 

HIMIZU (Sion Sono, Giappone)

In un Giappone post-terremoto, l’adolescente Sumida vive in una casetta in riva a un lago, dove teoricamente si affittano barche per gitarelle romantiche. Nello spazio aperto, vive anche un gruppo di senza tetto che sono legati affettivamente al povero Sumida, che ha la madre alcolizzata e il padre delinquente che ogni tanto lo picchia. La sua compagna Keiko s’innamora di lui. Raccontata così, e visto nel primo quarto d’ora, sembra la trama di un bellissimo film sull’adolescenza e su un paese in ginocchio. Ma al regista, evidentemente, tutto questo non interessava: dopo un po’ il film si riduce a una sequenza di pacconi, prima padre-figlio, poi tra i due giovani, poi arriva anche la yakuza portando il film a essere una versione seriosa dei nostri Bud Spencer e Terence Hill, coi quali mi scuso per averli paragonati a una tale sciocchezza. Applausi in sala, ma i critici… poverini dai! 3,5.

 

DARK HORSE (Cavallo scuro, Todd Solondz, Usa)

Un ragazzo con la sindrome di Peter Pan s’innamora di una sua simile. Quando si inizia a parlare di vita insieme, l’abbandono della propria cameretta si dimostrerà un’impresa ardua. “Volevo solo vedere se ero capace di fare un film che non parlasse di stupri, pedofilia e masturbazione”, ha dichiarato il regista. Gli rispondo io: “non tanto, e poi quando parli di quelle cose lì lo fai talmente bene che mi pare un po’ masochistico cambiare genere”. Il film somiglia un po’ a A Serious Man, dei Coen, ed è altrettanto inconcludente. 6.

Venezia 68 – Fuori Concorso e Sezioni Collaterali

 

CONTAGION (Contagio, Steven Soderbergh, Usa)

Il cast: Matt Damon, Jude Law, Gwyneth Paltrow, Marion Cotillard, Kate Winslet, Laurence Fishburne. La trama: un misterioso virus si diffonde negli Stati Uniti con una mortalità altissima e immediata. Motivi per vedere l’ennesimo film di questo genere: 1. il primo quarto d’ora, girato davvero come dio comanda; 2. il fatto che tra i nomi sopra citati, alcuni muoiano in brevissimo tempo, magari c’è qualcuno che vi sta particolarmente antipatico, quindi si fa proprio il tifo. Detta così, non credo di avervi coinvolto. Pazienza. 5.

 

QUESTA STORIA QUA (Alessandro Paris, Sibylle Righetti, Italia)

L’alba di Vasco Rossi, una delle più importanti rockstar italiane, che a dispetto dei suoi detrattori (troppi), è riuscito a emozionare almeno un paio di generazioni. Il documentario in realtà è un album di famiglia: tra filmini di gioventù, foto e interviste si comprende come sia nato il fenomeno, come sia cresciuto e quanto il suo background sia diverso dagli altri grandi artisti italiani, formatisi per lo più nelle grandi città e in famiglie borghesi. Il cinema non è il luogo più adatto a questo affettuoso e simpatico ritratto, una televisione di stato ideale l’avrebbe trasmesso senza indugi. 6.

 

THE MOTH DIARES (I diari della falena, Mary Harron, Usa)

Ora, io non so cosa salti in mente agli organizzatori di dare in pasto ai già troppo assurdi critici italiani, una specie di versione dark di Twilight, così tale da far perdere al film una fetta di credibilità e pubblico che a Natale si sarebbe tranquillamente conquistato. In un college femminile arriva una tipa dall’aspetto inquietante, che fa cose inquietanti e nel mentre succedono altre cose ancor più inquietanti. Inquietante eh? No, francamente noiosetto, anche se alla fin fine a Natale si vedrebbe di peggio. Ma al Festival no, please. 5.

 

CUT (Taglio, Amir Naderi, Giappone)

Un giovane regista si lamenta del fatto che i nuovi film puntano troppo al divertimento e non alla qualità (giusto), visita tombe dei maestri del cinema giapponese (bravo), poi scopre di avere debiti con la yakuza e per sanarlo si fa volontariamente prendere a pugni a pagamento. Per tutto il film. Bravo il sottoscritto ad andarsene anziché sfogarsi col regista. 3.

 

WHORES’ GLORY (La gloria delle prostitute, Michael Glawogger, Austria)

Documentario sulla prostituzione, vista in 3 bordelli di 3 paesi diversi, Tailandia, Bangladesh e Messico, presentati in rigoroso ordine di crescente degrado. Con una colonna sonora eccezionale (c’è la grande PJ Harvey ma anche tanto altro), il regista entra in queste realtà attraverso i volti e le voci delle protagoniste, con una sobrietà che potrebbe anche irritare qualche femminista. Invece la messa in scena così secca, mostrando in maniera normale una realtà così squallida, è il punto di forza del film, perché arriva diretta allo spettatore senza bisogno di passare per drammi o lacrime, o scene di violenza o di sesso realmente crude. Difficile che lo vedremo da noi, visti i continui riferimenti religiosi e poi, pur senza esagerare, qualche scena di sesso c’è. 7,5.

 

L’ARRIVO DI WANG (Manetti Bros., Italia)

Una giovane interprete deve sostenere un interrogatorio con un alieno che è giunto sul nostro pianeta e ha imparato il cinese perché lingua più diffusa sul pianeta. Bella idea, ma il film naufraga presto, causa ritmo ripetitivo e con attori improponibili. Il finale a sorpresa è simpatico, ma a quel punto ci si è già abbondantemente rotti le scatole. Come cortometraggio non sarebbe stato male. 4.

 

CAFÉ DE FLORE (Jean-Marc Vallée, Canada)

Storie d’amore separate in spazio e tempo, destini che (forse) si incrociano, unioni e separazioni dolorose. Montreal, 2011: un dj di successo lascia la moglie (con cui stava fin da adolescente) e cerca di recuperare il rapporto con la sua famiglia e le figlie. Parigi, 1969: una giovane madre è alle prese col suo amato figlio disabile e il suo inserimento nella società. Come nel precedete C.R.A.Z.Y., il regista dona una corposa colonna sonora alle sue vicende: si va dalla canzone che dà il titolo al film, ai ridondanti (non loro, ma per come sono posti) Pink Floyd, passando per Cure e Sigur Ros. Potente, espressivo, a volte troppo debordante, ma è tutta grinta. Finale da interpretare. O, meglio, da lasciare così. 7,5.

 

LÀ-BAS (Guido Lombardi, Italia)

La miglior opera prima del Festival (secondo la critica) è una sorta di via di mezzo tra Padrino e Gomorra, con una storia simile al primo, ma una tecnica regista più vicina al secondo. Gli aspiranti boss sono nigeriani e la città di sfondo è una Napoli che potrebbe essere qualsiasi città. Parlato quasi interamente in francese, con qualche momento di napoletano stretto, il film ha nella messa in scena cruda e poco incline al melodramma i suoi punti di forza. Il gruppo di attori, in perfetto stile pasoliniano (altro maestro dichiarato), è principalmente non professionista. Insomma, pur non scoprendo nulla di nuovo, il lavoro di Lombardi è assolutamente apprezzabile, anche perchè in 100 minuti non ci si annoia mai. 7.

 

PRESUMÉ COUPABLE (Presunto colpevole, Vincent Garenq, Francia)

Il film narra la storia vera del più assurdo errore giudiziario della storia recente francese: Alan Marécaux è un ufficiale giudiziario, che viene prelevato di notte in casa e viene sbattuto in carcere con l’accusa di pedofilia e sfruttamento minorile. Prima che venga riconosciuto l’errore, Marécaux passerà anni d’inferno in carcere, dove la sua vita familiare e professionale verrà spazzata via. Il film è tratto dal suo diario personale, e più che giudiziario, è il racconto di un dramma vissuto da una persona normale, interpretata da un bravissimo Phillipe Torreton. Un po’ didascalico, ma efficace. Ps: se becco qualcuno che cavalca l’onda dell’errore giudiziario per dare addosso ai giudici italiani, facciamo poi i conti a casa. 6,5.

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