Revanche e The Hurt Locker, ovvero la scelta tra una noia media e una noia grande

Revanche - Ti ucciderò
di Gotz Spielmann
Alex, da poco uscito di galera, fa l’autista per il padrone di un bordello ed ha una relazione segreta con una delle prostitute. Lei, nonostante sia la più richiesta, è piena di debiti e per uscire dalla situazione (e da una Vienna qui decadente e opprimente) Alex decide di fare una rapina, di cui i lettori potranno immaginare l’esito. 

Amatissimo dalla critica e apprezzato dai festival di tutto il mondo(tra cui Berlino e la nomination all’Oscar come film straniero), ilfilm del misconosciuto (da noi) Spielmann si presenta come unpoliziesco noir giocato maggiormente sul fattore psicologico chesull’azione pura. Volutamente compiaciuto e lento, il film si componedi pochi dialoghi e indugia, un po’ troppo, su sguardi e inquadraturefisse, caratteristiche di un certo cinema snob (qualcuno lo chiama”d’essai”) europeo. L’insieme è valido, la storia è interessante, anchese questo eccessivo narcisismo stilistico, unito a unacaratterizzazione dei personaggi alquanto sommaria (la prostituta chevuole “scappare”, il gangster “buono”, il poliziotto “pentito”, e cosìvia) e a una virata eccessiva nel torbido e morboso rendono Revanche unfilm troppo lungo e noioso per la vicenda che presenta. Peccato, perchéla seconda parte è molto interessante, ma ci si arriva già stanchini.Il finale, poi, è inutilmente dilatato. Il titolo italiano èsemplicistico e fuorviante.    6      

The Hurt Locker
di Kathryn Bigelow
Chiscrive non ama particolarmente (eufemismo) la Bigelow, autrice dei duefilm più sopravvalutati degli anni ’90, Point Break e Strange Days, eritiene che l’Oscar abbia premiato negli ultimi anni pellicole tra ilmediocre e il discreto. Dopo questa rassicurante introduzione, va dettoche Hurt Locker rappresenta per la regista statunitense un cambiamentosostanziale nella sua cinematografia, grazie soprattutto allacollaborazione con lo sceneggiatore/giornalista Mark Boal, che hapassato un periodo della sua vita in Iraq a fianco dei soldati. Lavicenda del film è infatti ambientata in Iraq, nelle fila di unasquadra di artificieri, e narra di alcuni episodi chiave vissuti daimarines nell’anno di “turno” in territorio di guerra, fino al ritornoin patria. L’inizio, in cui uno degli artificieri deve disinnescare unordigno, è folgorante: girato con macchina a mano, con soggettivecontinue, ritmo serrato, adrenalina al massimo, tensione alle stelle.Tutto questo per una buona oretta va avanti, fino a che non ci siaccorge che il film ripete per 5 o 6 volte la stessa scena. E a tuttele sensazioni positive provate fin qui, subentra la noia e (in alcuni)il desiderio che questo film dia qualche riposta allo spettatore.Attesa vana, perché, dei due messaggi principali del film, uno è datoall’inizio con una citazione («la guerra è una droga») e il secondo,sinceramente, lo sapevamo già: in guerra si muore. La regista purmostrando la guerra come un qualcosa di poco piacevole, non si chiedequanto questa sia necessaria o meno, non si schiera e lascia spazioalle immagini e alle vicissitudini dei suoi personaggi, caratterizzatiun po’ superficialmente. Il non schierarsi è un diritto di chirappresenta, lo sbadigliare è un diritto dello spettatore.Semi-ignorato dalle sale italiane, il film, reperibile in dvd, ècomunque consigliato a chi ama i film di guerra (intesi come tatticamilitare).     5,5

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