Romanzo di una strage, un punto di partenza per una visione necessaria dei nostri fatti

Romanzo di una strage, di Marco Tullio Giordana (2012)
Prima della visione. Milano, 12 dicembre 1969. All’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura c’è un’esplosione terribile che ucciderà quasi venti persone innocenti e ferendone molte di più. Due persone al centro della vicenda: Giuseppe Pinelli, anarchico ferroviere quarantenne, padre di famiglia, chioccia del circolo Ponte della Ghisolfa, e il commissario Luigi Calabresi, trentadue anni, padre di famiglia, vice responsabile della squadra politica della questura di Milano. La presentazione del film mostra chiaramente come i due personaggi siano gli assoluti protagonisti della storia, attraverso i loro ruoli, i rapporti con i loro “gruppi” e non ultimo il loro rapporto. I due nemici dichiarati dalla nostra storia in questo film sono rappresentati in una sorta di rispettosa e ironica guerra fredda che pare mantenesse da sola gli equilibri di una città. Poi la strage, che ruppe ogni legame e diede un ideale e tragico inizio alla stagione cosiddetta delle “stragi di stato”. Il film è diviso per capitoli e per zone, fotografa il prima e il dopo strage in vari punti strategici d’Italia, quali Milano, Roma e Padova; non ultimo il film mostra spesso situazioni e discorsi dei piani alti del Governo della Repubblica, dove Aldo Moro appare quasi come un io narrante, o, meglio, un impotente deus ex machina degli eventi di quel tragico dicembre. Il Romanzo è molto ben costruito e nonostante le 2 ore di durata e l’inevitabile sovrabbondanza di dialoghi, ha un ritmo narrativo incredibile. Attori eccellenti, sia i noti che i volti nuovi, strana conferma che quando si parla di una qualsiasi forma di malavita degli anni ‘70, i nostri attori danno il meglio di loro stessi. Regia eccellente, sia nel ritmo che nell’intensità di alcune scene, in primis proprio quella dell’esplosione, vista da un tram che passava lì davanti, dentro il quale in quel tragico momento, c’era l’allora giovane studente regista. Un film che costituisce una visione necessaria dei nostri fatti però visto come punto di partenza, piuttosto che d’arrivo.

Dopo la visione. Il film, in evidente ansia da prestazione bipartisan, mostra un primo, chiaro, intento: quello di mostrare il volto umano delle tre vittime della stagione del terrorismo, Pinelli, Calabresi e Moro. Già la scelta di legare quest’ultimo alla vicenda in sé, appare un po’ discutibile, mentre nell’analisi dei due personaggi principali non mancano critiche: da una parte, il figlio di Calabresi, che nella sua analisi, lamenta l’assenza nel film della campagna di odio che Lotta Continua attuò contro il padre, anche se riconosce al film il suo valore storico e didattico. Dall’altra parte, non si è mandato giù il fatto che l’interrogatorio di Calabresi a Pinelli fosse così morbido, che non si sia messo in risalto il carcere duro ai quali gli anarchici vennero sottoposti e infine viene discussa anche l’assenza dello stesso commissario nel momento del delitto dell’anarchico ferroviere. Il film si conclude con due scene discutibili e importanti. Prima il dialogo tra Calabresi e il prefetto D’amato in cui si esprime la tesi del film: due bombe, una di stampo fascista, una di ideazione anarchica ma di realizzazione nera, la prima destinata alla strage, la seconda a fare solo un botto notturno, ma che esplose di conseguenza. Calabresi accenna a una regia occulta dello stato, e nella scena successiva viene mostrato ucciso, quasi come fosse legato alla sua discutibile intuizione. Un’ipotesi che ha fatto infuriare prima il giudice D’Ambrosio, poi Adriano Sofri, che delle sue posizioni ne ha scritto addirittura un eBook. Questa recensione vuole quindi essere un invito a vedere il film, per poi integrarlo con gli articoli citati, nonché con la visione della puntata apposita di Blu Notte di Lucarelli sulla strage, facilmente reperibile in rete. Letture che non ci danno le certezze assolute, ma un’opinione si, come quella dell’ottimo Curzio Maltese: «Sostenere queste tesi non serve a pacificare gli animi, ma soltanto a spargere un inaccettabile perdonismo generale».

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