Su Sofia Coppola, tra Somewhere e Bling Ring

Bling Ring (Sofia Coppola, 2013)
“Devo ancora pensarci se mi è piaciuto…”. Si sente spesso, e sembra l’opinione di un insicuro, o di quei critici che hanno eliminato passione e istinto dal loro amore per il cinema. Fieri tutti di far parte della prima specie, in queste pagine si prova a capire insieme quanto valga il nuovo Coppola. Ispirato da fatti veri, Bling Ring è una banda di ragazze (più un ragazzo) che scopre la passione di abitare momentaneamente, e poi derubare, le case dei vip quando sono fuori città. Girato in modo esteticamente impeccabile, ritmato a colpi di hip hop, il film si divide tra una sorta di cronostoria dei fatti e, con un salto temporale, da interviste ai protagonisti dopo l’arresto. Lo sguardo registico è freddo e distaccato, e ciò non costituisce una novità nel cinema della Coppola; non assistiamo quindi a una condanna dei protagonisti, quanto piuttosto a un disarmata e disarmante “elenco” di valori a cui questa società d’oggi tende inesorabilmente, attraverso sguardi e gesta di giovani. Tema affrontato magistralmente in letteratura da Bret Easton Ellis e, al cinema da Harmony Korine con Spring Breakers, a cui il film viene inevitabilmente paragonato. La parte in cui i protagonisti si raccontano, soprattutto nel finale, è molto incisiva e riscatta pienamente il ciclico e ripetitivo introdursi nelle case vuote; è anche il momento per la regista di tirare le somme, e accentuare come il potere dei media stia alla base di questa crisi di valori e ideali. Un film riuscito, un percorso che continua, sin dai tempi di Maria Antonietta (con cui condivide il senso per l’estetica), ma che non mostra segni di crescita, dopo gli eccezionali exploit iniziali. Il livello è certamente ottimo, ma non vorremmo che il percorso finisse alla lunga per girare a vuoto, pur anche sopra una Ferrari. Nota finale per Emma Watson: l’ex Ermione deve ancora diventare una grande attrice, ma le scelte recenti  la pongono di diritto come nuova icona del cinema giovanile.

Somewhere (Sofia Coppola, 2010)
Non certo un film invisibile, ma riprendiamolo in mano per meglio inquadrare il periodo artistico di Sofia Coppola. Come il successivo Bling Ring, siamo nel mondo delle star, sempre a Los Angeles: l’albergo Chateau Marmont. Qui vive l’attore Johnny Franco, che passa senza entusiasmo il suo tempo tra festini pubblici e privati, finché un giorno non entra nella sua noia quotidiana la figlia Cleo. Per l’attore sarà l’occasione per uscire dal guscio di solitudine. Una trama come tante, ma la differenza tra Somewhere e i film ricuci-famiglie, è il tocco sottile, delicato, silenzioso e distaccato della regista. Il tono è intimista e i dialoghi ridotti all’osso, i personaggi entrano in scena in punta di piedi. La star è una persona come noi, la figlioletta non è una grintosissima bambina-modello che scombina vita e abitudini. Eppure ancora una volta il cinema della Coppola, ricco di metafore e sguardi, coinvolge ed emoziona, perché la sua messa in scena parla dritto al cuore di chi è in sala. A fine film tutti vorremmo scendere per almeno qualche minuto da quella Ferrari che gira a vuoto, sottolineando alcune inutilità del nostro quotidiano vissuto in modo passivo. Nel mezzo, la divertentissima scena della premiazione dei telegatti, che fotografa l’Italia televisiva come un bidone della spazzatura: c’è da credere che anche all’italianissima (di origini) regista vorrebbe un paese molto diverso dall’essere un enorme televisione con zero contenuti e il volume troppo alto. Da qualche (altra) parte, si può ritrovare se stessi.

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