The Woman in Black, un horror interessante ma poco incisivo, con l’ex “mago Potter”

The Woman in Black, di James   Watkins (2011)
Londra, fine ottocento (circa, eh). Arthur Kipps è un avvocato vedovo, che deve lasciare la città e il figlioletto di quattro anni con la governante per qualche giorno e trasferirsi in un villaggio per curare la vendita di una casa appartenuta a una vedova defunta. Nel villaggio, Kipps trova ostilità da parte di tutti, dovuta alle suggestioni provocate dalle misteriose morti di alcuni bambini, che indicano proprio nel fantasma della vedova in nero la causa di tutti i mali; fa eccezione l’uomo più ricco del paese, anche lui ha perso un figlio, ma non crede al sovrannaturale. James Watkins, dopo l’interessante e invisibile esordio con Eden Lake (prossimamente su queste pagine), mette in scena un romanzo molto noto in Gran Bretagna, La donna in nero di Susan Hill, già portato sugli schermi negli anni ottanta. Protagonista Daniel “Harry Potter” Radcliffe, che ormai non è più né bambino né mago: ha tagliato i ponti col passato, anche se dagli stessi ponti deve passare ancora molta acqua prima che possa reggere da solo le sorti di un horror, interessante ma poco incisivo, e vediamo perché. L’ambientazione è molto curata, i dialoghi e le situazioni normali sono molto british, ma sembra che il regista abbia fretta di arrivare al dunque, al “duello” tra il protagonista e la casa stregata, che è ben strutturato ma che passa senza lasciare grossi segni. Se il film vuol essere solo un esercizio di paura, si può dire che in parte sia riuscito, visto che spesso si salta sulla sedia, anche se alcune volte risulta un po’ abusata “Estetica del Bu!”: creare in una situazione di silenzio e tensione un primo piano di un volto inquietante, sparando contemporaneamente un effetto sonoro a tutto volume. Chi di noi non ha fatto un salto quando gli han fatto “bu!”? Giudizio sospeso, o forse semplicemente sufficiente: il film svolge il suo onesto compito, in un’ora e mezza scarsa, senza strafare o voler sembrare nulla più di quel che è.

The Others, di Alejandro Amenabar (2001)
La migliore storia di fantasmi degli ultimi vent’anni (lasciate perdere The Orphanage, grazie) è firmata dal grande Amenabar, che ha dato alla Kidman uno dei migliori ruoli della sua carriera, rischiando seriamente di portare un horror a conseguire il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, se quell’anno ci fosse stato qualcun altro al posto di un Nanni Moretti intrigato dai matrimoni indiani. La storia è quella di una vedova di guerra di inizio novecento e dei suoi due figli, rinchiusi in una villa principesca, le cui regole ferree includono sia di non uscire alla luce, sia di non aprire una porta prima di chiudere la precedente. L’arrivo di tre domestici che hanno già lavorato in quella casa, e il loro rapporto con la vedova, porta inquietudine e mistero, che col passare dei minuti diventerà sempre più film, fino a un finale geniale ed entusiasmante. The Others fa certamente paura, almeno in un paio di scene, e senza bisogno dell’“Estetica del Bu!”, ma soprattutto appassiona  su più piani: da una parte la vicenda familiare, complessa e misteriosa, dall’altro le figure dei tre domestici, presentati presto come i cattivi del film, tra cui spicca un’indimenticabile Fionnula Flanagan, attrice dallo sguardo di ghiaccio. The Others è uscito al cinema, è uscito in dvd, è spesso programmato in televisione, ma visto il tema trattato, sempre di invisibile si tratta. E magari chi tra i più giovani si è entusiasmato per The Woman In Black, può recuperare tranquillamente questo gioiello.

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