This Must Be The Place, un vaso di Pandora con lo straordinario Sean Penn

This Must Be The Place, di Paolo Sorrentino (2011)
«Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato…», si ripete spesso Cheyenne, rockstar in pensione che mantiene il look del passato. La vita di rendita a Dublino è tranquilla, ma la notizia del padre morente, lo convincerà a tornare a New York e, in seguito, a intraprendere quello che si rivelerà un vero e proprio viaggio di formazione per il protagonista. Il primo film americano di Paolo Sorrentino ha un grandissimo pregio: in ognuno di noi produrrà sensazioni, reazioni e impressioni diverse; qualcuno lo vedrà simile a tanti altri film visti, qualcun altro lo penserà il più originale dei film visti ultimamente e ad altri, semplicemente, non piacerà. Questo perché This Must Be The Place è un vaso di pandora ricco di situazioni, riferimenti, soluzioni registiche, grande musica, parole dette e non dette, con l’aggiunta di quello straordinario attore che è Sean Penn. Chi scrive ha visto in questo film un po’ di fratelli Coen (facilmente riconoscibili anche in un paio di elementi del cast: Frances MacDormand e Harry Dean Stanton) e un pizzico delle atmosfere di Sofia Coppola, nel raccontare una storia in cui succede pochissimo a livello di azione e tutto a livello interiore. Il titolo del film è preso da una nota canzone dei Talking Heads, che viene suonata in una bella scena del film, con l’ex leader David Byrne e il protagonista a confronto su cosa sia essere un artista. Qualche difetto: l’espediente che dà motore al film (la ricerca di un nazista), pur visto come un pretesto, è un filo troppo pesante per stare in secondo piano, e la voce fuori campo che campeggia per tutta la seconda parte è un po’ troppo invadente. E anche l’epilogo può sembrare inutile. Ma la bilancia pende decisamente dalla parte dei pregi, che non è giusto rivelare qui, ma darne solo una piccola anticipazione: ci si diverte tanto!

When You’re Strange, di Tom DiCillo (2009)
L’italo-americano Tom DiCillo da noi non ha la fama che meriterebbe, visto che soprattutto negli anni novanta ha firmato ottime commedie, quali Johnny Suede, Si gira a Manhattan e il successivo Delirious nelle quali ha sempre affidato all’amico Steve Buscemi i ruoli di protagonista. When You’re Strange è un documentario sui Doors e la loro breve, fantastica e intensa storia che parte dalle origini, con l’incontro Morrison-Manzarek del 1965, e si conclude nell’anno della morte del loro leader, Jim Morrison, avvenuta (forse?) nel 1971. Già vent’anni fa Oliver Stone, con The Doors, controversa ma apprezzabile opera di fiction, portò il gruppo californiano sugli schermi. DiCillo gira invece un documentario, con alcune immagini e simbolismi presenti anche nel film di Stone: il deserto, il fuoco, la macchina che attraversa strade senza gente e senza meta; metafore e suggestioni che Morrison trasmette dalle sue canzoni e che coinvolgono l’immaginario di chiunque voglia mettere in scena la loro storia. Il Jim Morrison di DiCillo è meno autodistruttivo e potente, ma più fragile e romantico, e l’abile e originale riproposizione di un filmino girato dallo stesso Morrison al volante di un’auto, mixata con scene di fiction costituisce l’Io narrante della storia. Il film inizia in sordina con una sorta di cronologia di eventi, e successivamente acquista maggiore spessore grazie a una contestualizzazione del fenomeno-Doors nel contesto della società americana di quei tempi. When You’re Strange (verso della bellissima People Are Strange) lascia spazio anche agli altri elementi del gruppo, Robbie Krieger su tutti, in quanto compositore di molte canzoni del secondo periodo dei Doors. Imperdibile per chi li ha amati, interessante per tutti gli altri che, ad amare un gruppo come questo, fanno sempre in tempo.

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