Tra il troppo liscio Dallas Buyers Club e il radical chic Frances Ha

Dallas Buyers Club (Jean-Marc Vallèe, 2013)
Jean-Marc Vallèe è un cineasta da noi invisibile. La sua prima opera (ma non opera prima) distribuita, C.R.A.Z.Y., coinvolgente ritratto di una famiglia a ritmi rock, dopo il grande successo di critica a Venezia è stata vista da pochi, mentre il film successivo presentato sempre in laguna, Café de Flore, dramma con tocco di surrealismo sempre a ritmo di musica (l’ossessiva ripetizione della canzone che dà il titolo al film), non è mai uscito come gli altri suoi film. Dallas Buyers Club è il primo film americano del regista, con budget sostanzioso e attori noti. La storia è ispirata a un fatto vero che vide a metà degli anni 80 il rude e razzista elettricista texano Ron Woodroof scoprirsi malato di Aids e intraprendere un percorso di consapevolezza della malattia, delle sue cure e di consapevolezza verso il mondo con uno sguardo diverso da prima. Interpretato da uno straordinario Matthew McCounaghey (dimagrito di  20 chili), coadiuvato dagli ottimi Jared Leto e dalla splendida Jennifer Garner, il film ha una struttura narrativa e morale piuttosto nota a quel cinema americano di grande impatto emozionale e didascalico. Il problema è che sembra tutto già visto tante volte: la storia del rude alla Eastwood che  si scopre eroe sembra non stancare mai autori e giudici a stelle e strisce, ma le due ore di film scorrono prevedibilmente nei binari del pistolotto americano che qui punta giustamente il dito contro le multinazionali farmaceutiche e altrettanto giustamente ma ripetitivamente su tolleranza e rapporto col prossimo. Tutto scorre liscio, anche troppo. Sufficiente, Vallèe ha fatto di meglio.

Frances Ha (Noah Baumbach, 2012)
Dettata e introdotta dai cambiamenti spaziali e temporali della protagonista, questa storia racconta della vita della giovane Frances che non riesce a sfondare nel campo della danza e della direzione artistica, che non ha abbastanza soldi per una vita stabile e non più precaria, ma che non è abbastanza povera da definirsi tale. Inoltre Frances, come dice un caro amico, è “infidanzabile” per via della troppa libertà interiore ed esteriore che caratterizza il suo vivere. Eppure Frances è felice, non perde mai il sorriso e non demorde mai. Scritto a quattro mani dal regista e dalla bravissima protagonista Greta Gerwig, in totale empatia col suo personaggio, Frances Ha è il film radical chic per eccellenza: ambientato a New York, girato in bianco e nero patinato, ricco di interni dove abbondano libri, strumenti musicali, occhiali da nerd e computer da hipster, il film si pone altezzosamente come sintesi citazionista tra il cinema di Truffaut e quello di Woody Allen. Una nouvelle vague rivisitata e ostentata, proprio come tutti gli elementi sopra citati, non guastano l’ottima riuscita di un film, che pur nel suo eccessivo snobismo, riesce a stupire, a far sorridere e a coinvolgere. Il titolo, curioso e delizioso, è svelato solo nella scena finale. Un gioiellino antipatico ma prezioso, una piccola perla di cinema che è indipendente solo nella sua forma, ed è entusiasmante nella sua sostanza. Sentiremo parlare presto di Noah Baumbach, anche se in Italia per ora di Frances Ha non una traccia. Accontentiamoci dei sottotitoli italiani facilmente reperibili.

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