Un altro grande, impegnativo, film del maestro Michael Haneke

Amour, di Michael Haneke  (2012)
Iniziamo parlandoci chiaro: Michael Haneke si sta sempre più affermando come il più importante regista vivente. Opere come Funny Games (tutti e due), Niente da nascondere, La pianista, Il tempo dei lupi e il fantastico Il nastro bianco lo proiettano direttamente nell’olimpo dei più grandi di sempre. E pensare che ha iniziato tardi (il suo primo film, Il settimo continente, è del 1989 e lui ha 70 anni), se no chissà quanti altri capolavori avremmo potuto ammirare. In quest’ultimo Amour, il Maestro tira fuori dal cilindro due mostri sacri del cinema francese, da molto tempo fuori dai riflettori: il mitico Jean-Louis Trintignant e la stratosferica Emmanuelle Riva, la cui prova recitativa in questo film non ha eguali negli ultimi anni. La storia di Anne e Georges, due ottuagenari maestri di musica in pensione, subisce un durissimo colpo quando un ictus colpisce Anna, seppur in modo non mortale (tranquilli, succede nei primi minuti), e il film racconta come questa inossidabile coppia affronta il duro tramonto delle loro vite senza particolari aiuti esterni, visto che la figlia (l’immancabile Isabelle Huppert) è concentrata sulle sue tournée, piuttosto che sui genitori. Lo sguardo di Haneke, come al solito è asciutto, diretto, lontano da qualsiasi tecnica registica che possa distrarre lo spettatore: la colonna sonora non c’è, la macchina da presa è ferma e spesso lascia andare fuori campo i suoi attori, i dialoghi sono ridotti all’osso, la spettacolarizzazione (in questo caso del dolore) semplicemente non c’è. Amour è una visione estremamente impegnativa per uno spettatore che sa benissimo come andrà a finire il film, anche se quando si tratta di Haneke non sai mai quanto possa spremerti; la storia procede con un ritmo apparentemente lento ma la potenza della messa in scena quasi non lascia respiro a uno spettatore troppo concentrato, troppo inserito in quell’appartamento dal quale non si esce in nessun modo, come fosse una prigione. Una visione che, quindi, ti prova fino in fondo, ti strema, ti crea dolore, domande, ma che ti fa venire voglia di cinema. Una voglia di questo cinema che raramente negli ultimi anni è stata trasmessa così chiaramente. Non c’è nessun contrasto in queste parole, al cinema non sempre si va per divertirsi e questo, decisamente, non è un divertimento. Haneke ti fa “un mazzo così” psicologicamente, ma ogni volta che è lui a farlo, esci con la sensazione di aver visto un grande film.
Il sole dentro, di Paolo Bianchini (2012)
“Alle loro Eccellenze, i membri responsabili dell’Europa”. Con queste parole inizia la lettera che due ragazzini africani hanno deciso di recapitare direttamente ai destinatari, nascondendosi nel vano di un aereo. Una lettera che chiede più attenzione “per avere scuole, cibo e cure, così come i vostri figli”. Storie che s’intrecciano, di un’Africa sempre alla ricerca dell’Europa. Storie di ragazzi, storie odierne, storie vere e verosimili. Paolo Bianchini è un regista di grande esperienza e varietà, non molto noto al grande pubblico ma mai banale. Ha lavorato molto per la televisione e ha girato un piccolo gioiello (La grande quercia) che non ha mai trovato fortuna distributiva nelle sale italiane, e tantomeno in dvd. Una volta tanto concediamoci una pre-recensione di un film non visto, invitandovi a cercarlo nelle poche sale in cui uscirà questa settimana, per far si che non finisca direttamente e immeritatamente nell’oblio.

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