Il bassorilievo di Augusto e la sua fortuna critica

Nella prima metà del XVI sec. l’erudito ravennate Gian Pietro Ferretti identificava il luogo di rinvenimento dei due frammenti marmorei romani, noti come Apoteosi di Augusto e attualmente esposti nel Primo Chiostro del Museo Nazionale di Ravenna, con il Mausoleo di Galla Placidia.
Dopo il loro rinvenimento, le due sculture vennero infisse nel muro fuori dalla chiesa di San Vitale, generando così interesse e curiosità negli eruditi locali che iniziarono a descriverle nelle loro dissertazioni. È il caso di Girolamo Fabri nella sua Ravenna ricercata: «Dalla Chiesa si apre l’ingresso ala Sagrestia di bella fabrica […] nell’atrio della qual Sagrestia si vede affisso al muro un Marmo antico con varie figure di huomini, e di un Toro rappresentanti, come si crede, il Sagrificio di un’Idolo, opera antichissima non si sà fe de’ Romani, ò pur de’ Greci lodata, anzi ammirata dagl’Intendenti per cosa singolarissima; & eccedente qualsisia più profuso, e sollevato encomio, e tale insomma, che possa paragonarsi alle prime, che sian nel Mondo».
Il Fabri già qualche anno prima, ne Le sagre memorie di Ravenna antica, aveva ricordato la loro collocazione in un ambiente che si trovava a sinistra dell’ingresso sud della basilica di San Vitale, che serviva a piano terra come sacrestia e al primo piano come museo-lapidario delle ricchezze artistiche della comunità benedettina insediatasi da secoli nel monastero adiacente la chiesa: «[…] nobili  Reliquiarij dentro la Sagrestia, fabrica in ogni sua parte magnifica, e ricca di preziosi parati, e di quantità grande di argenti per uso del culto Divino, e ornamento de’Sagri Altari, nel cui ingresso vedesi affisso al muro un bellissimo basso rilievo con molte figure di huomini, e di un cavallo opera di molti secoli, si come pure nella piazza avanti la Chiesa sta un’antica lapide sepolcrale […]».

Copia in bronzo dell’Imperatore Augusto “loricato”, davanti alla Basilica di Sant’Apollinare in Classe

Nel 1750 Giovanni Battista Passeri nella De ara augustea dissertatio IV dopo aver descritto minuziosamente i due frammenti, li ricorda anch’egli «in vestibulo Basilicae Divi Vitalis», restituendone un disegno completo delle parti mancanti.
A Serafino Barozzi bolognese si deve un disegno del bassorilievo eseguito nella seconda metà del XVIII secolo. Il Barozzi ricorda il pregio di questa scultura in concomitanza ai Troni di Nettuno conservati entro la chiesa di San Vitale: «Pure non sono in conto veruno da porsi in confronto col meraviglioso Basso rilievo del marmo stesso, che sta nel vestibolo vicino alla porta della Sagrestia. Ho posto in fine di quest’Opuscolo il semplice contorno di sì famoso Basso rilievo, il quale quantunque sia inciso da mano maestra non servirà che a dare una piccola idea di tale Opera, il cui pregio non può conoscersi abbastanza senza vederla». Nella nota aggiunge che «Credesi, che questo Basso rilievo fosse fatto nel Secolo di Augusto, e rappresenta l’Apoteosi del medesimo Imperatore, ove vedesi la Figura di Roma, quella di Augusto, di Cesare, di Livia, e dell’Imperatore allora vivente armato d’asta, come indica l’eruditissimo Passeri nella sua opera […]».
Nel 1791 Francesco Beltrami descrive ne Il Forestiere instruito delle cose notabili della città di Ravenna il bassorilievo collocato nel muro del vestibolo della sacrestia: «Passate al Vestibolo dalla Sagrestia, dove a mano sinistra presso la Porta sta incastrato al muro l’eccellente Basso rilievo, che esprime l’Apoteosi, o sia Deificazione di Augusto. Questo Basso rilievo fu interpretato dal celebre antiquario Giambattista Passeri Thesau. Gem. Antiq. Vol. 3 pag. 139. Egli giudicò che appartenesse a qualche Tempio dedicato a Roma, e ad Augusto, e che servise di parapetto all’Ara. Un così nobile Monumento vedeu espresso in due pezzi di marmo pario non interi, alti Pal. Rom. 4.7. Il pezzo più grande è lungo Pal. 5.8., e l’altro Palm. 2.3. Nel pezzo maggiore sono squisitamente scolpite le figure della Dea Roma, a cui vicino è Claudio Imperatore allora vivente, che da Lei impetra la Divinità a Giulio Cesare segnato sulla fronte di una stella, a Livia in sembiante di Giunone avente in mano l’immagine di un Fanciulletto, e ad Augusto di lei Marito sotto la figura di Giove. Nell’altro pezzo, o fragmento dimostrasi un Sacrifizio fatto ad Personaggi divinizzati […]».
Considerata la scultura più famosa della Ravenna romana, questa opera divenne fin da subito significativa testimonianza delle raccolte lapidarie dei monaci benedettini di San Vitale che la esposero, perlomeno a partire dalla seconda metà del XVII secolo, nella sacrestia della chiesa a ostentazione delle loro ricchezze artistiche. Nella Guida di Ravenna esposta da Gaspare Ribuffi con Compendio Storico della città, uscita nel 1833, il bassorilievo viene infatti descritto tra gli oggetti degni di osservazione, ancora esposto «a sinistra presso la porta del Vestibolo della Sagrestia della Basilica di S. Vitale». Considerata «opera eccellente de’ tempi di Claudio Imperatore» ai tempi del Ribuffi si credeva «appartenesse a qualche Tempio dedicato a Roma e ad Augusto, e che servisse di parapetto all’Ara […] fatta eseguire dai Ravennati per onorare la memoria di Augusto, e di Claudio, ai quali furono debitori di molti monumenti fatti erigere in questa Città».
Con la soppressione napoleonica degli ordini monastici (1797), la costituzione del Museo Municipale (1804) e la successiva istituzione del Regio Museo d’Antichità (1885), il lapidario benedettino di San Vitale fu trasferito progressivamente negli ambienti della chiesa di San Romualdo così come descritto nella Guida di Ravenna di Corrado Ricci, uscita nella sua terza edizione nel 1900. «Nel Chiostro, mirabile per la sua eleganza e grandiosità» si trovavano in due soli bracci sculture e iscrizioni greche, etrusche, romane e bizantine e il «229: celebre rilievo in pario detto generalmente l’Apoteosi d’Augusto: due frammenti appartenuti forse a un’ara». La descrizione continua con l’identificazione dei singoli personaggi.

L’archeologa Federica Cavati davanti al bassorilievo dell’Apoteosi di Augusto

Luigi Ricci, fotografo ravennate e padre di Corrado Ricci, ricorda il bassorilievo tra i “capitelli e dettagli” della chiesa di San. Vitale nel suo Catalogo delle fotografie di Ravenna di Luigi Ricci, pittore fotografo, Bologna 1882, uscito nella sua terza edizione. A Corrado Ricci si deve inoltre una breve descrizione dell’Apoteosi ne Le raccolte artistiche di Ravenna del 1905 con l’aggiunta della proposta, nuova a suoi tempi, che vedeva le due sculture parti di un cenotafio dedicato a Druso, descritto dettagliatamente dal «valente archeologo Antonio Zirardini». Quest’ultimo tuttavia «confidando troppo in un’iscrizione riferita dal Grutero, non s’accorse ch’essa altro non era che la fusione incompleta ed errata di due diverse iscrizioni, di cui la parte che si riferisce a Druso era scolpita, com’è noto, su Porta Aurea, e non in un Cenotafio, la cui esistenza resta perciò esclusa».
Dopo il trasferimento del Museo Nazionale di Ravenna dalla chiesa di San Romualdo al monastero benedettino di San Vitale, avvenuto nel 1913-1914, il bassorilievo trovò collocazione, assieme ad altre sculture, nella seconda stanza attigua al Primo Chiostro come descritto nella guida redatta dal soprintendente Ambrogio Annoni e come sembrano documentare due fotografie datate 1930 circa dell’Archivio Alinari-Villani di Firenze. Solo in seguito al riordino del Primo Chiostro curato da Giuseppe Bovini all’indomani della seconda guerra mondiale, che aveva causato il bombardamento di questa ala del Museo con conseguente distruzione di una parte del lapidario, il bassorilievo venne collocato nel lato sud del Primo Chiostro, dove attualmente si trova.

Tutte le foto del servizio sono di Pietro Barberini

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