Da Santo Stefano in Tegurio a Santo Stefano degli Ulivi

Fra Ravenna e Godo la storia di due chiese dedicate al primo venerato martire cristiano

Il Lamone, all’epoca Teguriense, raggiunge Ravenna e, circondandola sul lato settentrionale, forma il porto di Santa Maria al Faro, dove confluisce il canale Badareno, derivato dal Po, fatto scavare dal re goto Teodorico sul finire del V secolo. Il nuovo assetto contraddistingue un lungo periodo, segnato dai governi bizantini e dai poteri dell’Arcivescovo, capace di dominare su vasti territori per quasi tre secoli.
Agli albori dell’età comunale e con l’avvento di importanti corporazioni di mestiere, come quella dei pescatori della Casa Matha sul finire del X secolo, il fiume Tauro o Tegurio porta le sue acque, periodiche e limacciose, attorno alle mura della vecchia capitale bizantina. L’antico abitato di Vadum Gothorum, (guado dei Goti?) punto di transito verso Ravenna assume importanza fin dal secondo secolo.
La chiesa di Santo Stefano in Tegurio è citata in un documento del 963. Lo scritto, dove è riportato un ponte di Gotho sul fiume Alimone, fa supporre che il Lamone a monte di Godo avesse quell’appellativo, per assumere poi la denominazione di Teguriense nel suo proseguimento fino a Ravenna, dove si avvicinava alla città presso la basilica di San Vitale.

Esterno ed interni della chiesa di Santo Stefano in Tegurio

La leggenda farebbe risalire la pieve ai tempi di Galla Placidia, ma per le caratteristiche architettoniche  e  condizioni di sito non può non essere legata all’insediamento delle pievi paleocristiane di area ravennate fra l’VIII e il IX secolo. Dopo la “rivoluzione” idraulica del XIII secolo, il fiume scorre più a Nord e il suo vecchio tracciato, con la strada alzaia, è tuttora visibile nella via principale, la Faentina, sulla quale si affacciano i principali edifici.

La Pieve di Godo in Vadum Gothorum
e Santo Stefano ad Balneum Gothorum
in città che dal XIII secolo sarà
Santo Stefano degli Ulivi.
Nella prima metà del Trecento
il monastero ospitò Antonia Alighieri,
suor Beatrice. La via omonima conduce al portale dell’elegante edificio ricostruito nel 1757
da Domenico Barbiani.
Una chiesa di campagna
e un complesso monastico in città:
luoghi di culto uniti da acque fluviali
e termali. Il tempo nasconde, stendendo secoli d’oblio che l’idea dell’acqua torna a svelare

La chiesa si erge appartata, sulla strada che conduce a Villanova di Ravenna, costruita in posizione leggermente elevata e con l’abside poligonale rivolta a Oriente.
Attorno alla pieve sono stati effettuati diversi sondaggi e scavi archeologici che hanno portato a ipotizzare la presenza di un ampio nartece, che poteva verosimilmente contenere il fonte battesimale. All’interno dell’edificio sacro vi erano quattro colonne in marmo, d’epoca imperiale. Queste colonne sono state successivamente inglobate nel laterizio che ha reso uniforme il colonnato. Dopo le trasformazioni, restaurata dalle rovine della seconda guerra mondiale, la Pieve di Godo si presenta nella sua forma basilicale, a tre navate con pilastri in laterizio e colonnato a tutto sesto.
Seguendo la strada costruita sull’orma lasciata dal Lamone abbandonato, il Teguriense, si giunge a Ravenna dove a Santo Stefano è dedicato un monastero femminile situato accanto alla chiesa e al monastero di San Giovanni Evangelista. A Santo Stefano degli Ulivi, in epoca medievale era monaca, col nome di Suor Beatrice, Antonia Alighieri, figlia del grande Poeta, rifugiato a Ravenna.

Esterni della chiesa di Santo Stefano degli Ulivi

La chiesa di Santo Stefano appare con l’appellativo di infra balnea o ad balnea gothorum, forse a memoria di antiche terme del tempo dei Goti. Le analogie fra la Pieve di Godo e la chiesa ravennate non sono soltanto legate al Santo Protomartire, bensì ai Goti. La pieve agreste è situata sul guado, l’altra in città viene ricordata come ad balneum gothorum. Siamo in prossimità della linea di costa, della foce portuale del Badareno, quindi non troppo lontani dall’acqua, che nel luogo ha lasciato forti ricordi storici: il naufragio sulla costa di Gallia Placidia e il precedente bacino cittadino del porto romano.
La chiesa viene ricostruita da Domenico Barbiani nel 1757; sull’altare maggiore era raffigurata la “Lapidazione di Santo Stefano”. Nel 1882, quando la chiesa fu sconsacrata, in seguito alle leggi sulla soppressione degli ordini eclcesiastici, tutti i locali furono occupati da una succursale della Caserma dell’esercito. Dagli anni Venti del Novecento, divenne sede della Caserma dei Pompieri; a quel tempo vennero realizzati gli edifici posti nella parte retrostante la chiesa. Queste rimesse, tuttora in uso alla Polizia Municipale che da diversi anni ha sostituito i Vigili del Fuoco, sono state costruite nel tipico stile dell’epoca come molte strutture della zona portuale.
Strano destino quello di Santo Stefano, protettore dei muratori: le sue costruzioni sembrano inseguire l’acqua!

 

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