Miniature campianesi di Ermanna Montanari  

La Principessa del Villaggio Universale

MontanariQuesto libro, Miniature Campianesi, ci spiega il fenomeno teatrale Ermanna Montanari meglio di ogni suo spettacolo, giacché qui non ci sono a proteggerla le difese psicologiche della scena. Qui la Diva è nuda.
Con Nonna Daura non si poteva certo imparare l’italiano. Neanche con Nonna Nora: «… da lei ho imparato a bestemmiare, a raccogliere le erbe…».
Avverto che bestemmiare in dialetto romagnolo, è una forma della preghiera.
Ermanna era «una bimbetta gracile, malaticcia, con problemi di aggressività» in preda a quella spirale di ombre immaginarie che vedeva roteare pericolosamente sui muri: «Tenevo nascosto in un cassetto dell’armadio un quaderno dove appuntavo i miei desideri di vendetta e vari scenari di uccisione della mamma». Al primo sospetto che la mamma avesse scoperto quel quaderno «con pazienza lo distrussi, riducendo le sue pagine in tanti minuscoli pezzetti perché non si riuscisse a leggere neppure una virgola». D’altra parte «più volte la mamma ha dovuto allontanarmi dal pozzo dove volevo buttare la mia sorellina».
Ma i nostri genitori non possono essere davvero anche i nostri salvatori: loro ci han già dato la vita. Ed ecco apparire, sulla scena dell’infanzia di quella bimbetta, tre figure salvifiche.
Innanzitutto Nonno Renzo. Per lui repubblicano, accudire le mucche, con le quali entrava in rapporto di reciproca empatia, era un rito religioso laico, equivalente alla cura della famiglia.
Poi Suor Andreina, la Madre Superiora dell’asilo di San Pietro in Campiano, a poche centinaia di metri dal casolare, e dove la piccola («E’ mi scaraböc!» la chiamava il babbo) non imparava soltanto a leggere, scrivere, disegnare, ricamare: «In refettorio si imparava a tenere la schiena dritta mangiando con un libro in testa». Alle altre suore, la Madre Superiora diceva che non si poteva addomesticare una bambina che ogni giorno scavava un buco nel giardino per ascoltare le voci al fondo della terra: «Dovevano essere loro ad ascoltare lei». Nelle recite di Natale Suor Andreina le affidava molte parti, la fata buona, la fata cattiva, la matrigna, un nano, il principe: «A me sarebbe piaciuto fare la bella addormentata piuttosto che tutte le altre parti, ma non ero abbastanza bella… In tutti gli anni che rimasi all’asilo non mi toccò mai di recitare la principessa».    
Alle elementari infine la Maestra Gianna le fece amare i burattini: «Non avrei mai immaginato che, per guadagnarmi da vivere, durante i primi anni di teatro, avrei lavorato con il maestro Monticelli per dare la voce a Fagiolino…».    

BambozaMaestra Gianna sibilò un giorno a Nonno Renzo: «Non sa risolvere certi problemi di matematica, ma li sa disegnare». Frase sibillina ed enigmatica che il Nonno cominciò a ripetere spesso, fino a quando Ermanna non chiese di essere mandata in un College di Londra. Contro il parere del babbo (suo figlio) il Nonno patriarca la mandò a Londra e smise di ripetere quella frase, ormai non più enigmatica per lui che aveva deciso di lasciarla… disegnare. Quando a vent’anni la “bimbetta” decide di andarsene di casa per fare teatro e poi sposarsi, sarà ancora Nonno Renzo a convincere il padre. Ma prima serviva un colpo di teatro all’altezza del personaggio e così Ermanna si inventò per Marco, il Principe Azzurro designato, una prova del fuoco degna dell’ordalia più barbarica. Lo lasciò su due piedi una sera davanti alla chiesa di San Rocco a Ravenna «dopo un furioso litigio». Il ragazzo innamorato, che non aveva neanche la patente, cadde consapevolmente nella perfida trappola e in preda a una lucida disperazione cominciò a camminare da Ravenna. Cammina, cammina, cammina, camminò tutta la notte. Giunto alla via Cella, la percorse tutta fino a Campiano, dove all’alba – per sua fortuna – trovò ad accoglierlo Nonno Renzo che ancora non lo conosceva e che invece di mandarlo via a bastonate, gli diede un’occhiata veloce e lo fece entrare senza fare domande, solo dicendogli di aspettare che Ermanna si svegliasse. Al risveglio, la Diva, trionfante, trascinò Marco, ormai sfibrato di ogni forza di resistenza, nella «camera da ricevere». E per entrambi fu il naufragio d’amore. Nonché l’ouverture della stagione più gloriosa del teatro ravennate.
La “camera da ricevere” era una stanza buia con specchi, adibita a ripostiglio per gli abiti che gli ospiti dei pranzi di Pasqua e di Natale si toglievano al loro arrivo al casolare. E, di nascosto, fu il primo palcoscenico di Ermanna: «Penso che le molteplici figure del mio repertorio di attrice, siano nate là, che quella camera sia stata la loro culla».
Mi torna in mente, ad esempio, la rivoluzionaria (rispetto a Dumas, Stendhal, Shelley, Corrado Ricci, Artaud, Moravia) rivisitazione di Beatrice Cenci proposta da Ermanna nel 1993: Beatrice uccide il padre che l’ha stuprata ma, nel sogno che Ermanna le fa fare in carcere, il padre risorge e rivive come un amoroso patriarca eternamente giovane nello sguardo della figlia. A chi rimaneva sbalordito dall’animalità grandiosa del suo teatro visionario Ermanna dirà di aver messo immagini che non capiva ma che aveva visto.
Il borgo natio da lei abbandonato ha continuato imperterrito ad attanagliare ogni gesto di lei: «Campiano è quella luce che mi devasta. Per quanto non voglia averci a che fare, ogni volta resuscita e trova un buco dove infilarsi».
Sobria e secca pergamena miniata con l’intenzione di consegnare alla storia un sogno medievale dove l’apparente freddezza della scrittura è una sottile astuzia per dissimulare la sofferta esperienza di fissare letterariamente le dolcezze e le spine del ricordo, questo libro non è stato scritto per andare in scena, per la semplice ragione che per la scena è già pronto: lo è naturalmente.
Ah, dimenticavo! Questo libro ambientato a Campiano in verità non è nato a Campiano, ma in Senegal, a Diol Kadd, il villaggio africano del cantastorie senegalese Mandiaye. Lì Ermanna ha avuto la sensazione precisa che Campiano e Diol Kadd siano lo stesso villaggio e che Diol Kadd e Campiano siano località più universali di qualunque villaggio globale. E se mai questo libro fosse stato iniziato per liberare finalmente la sua Autrice dalla persecuzione di Campiano, in corso d’opera è avvenuto il capovolgimento. «Campiano, e la mia famiglia, che imploro di non darmi requie»: l’epilogo è esattamente il contrario dell’incipit. Quella maledizione si è fatta benedizione. E se tu sei il “genius loci”, sarai il genio di quel luogo in tutto il mondo.

Ermanna Montanari, Miniature Campianesi, 53 testi in prosa o in versi raccolti in 108 pagine, illustrate da Leila Marzocchi e stampate in trecento copie numerate nel dicembre 2016 dalle Edizioni Oblomov di Cagliari.

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