Il rock club di provincia che fece l’impresa. Parla il patron del Bronson

Angiolini: «I ravennati dovrebbero essere più curiosi, mi piacerebbe collaborare con l’università. Il 2019? Esperienza unica. In città mancano spazi europei per la musica e le sue contaminazioni»

Marlene Bronson

Il Bronson sold out lo scorso inverno per il concerto dei Marlene Kuntz

Aperto nel 2003 nell’ex scuola di ballo di Madonna dell’Albero, il Bronson in pochi anni ha portato la grande musica rock internazionale, più o meno alternativa, in una città come Ravenna tradizionalmente esclusa da quel circuito.

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Christopher Angiolini, patron di Bronson Produzioni

Ne abbiamo parlato con Christopher Angiolini, patron di Bronson Produzioni con cui gestisce anche il bagno Hana-Bi di Marina e il Fargo caffè, in centro a Ravenna.

Non ti sei ancora stancato di organizzare concerti?
«Bella domanda, a volte me la pongo anche io. In realtà questo è solo un aspetto del mio lavoro, ma capisco cosa intendi. La musica continua a incuriosirmi, è un lavoro di ricerca sempre stimolante che ovviamente diventa per forza di cose multidisciplinare rientrando in un quadro culturale e sociale molto più ampio. Qui non si tratta di “organizzare concerti”, ma di affrontare ogni volta nuove sfide, divulgare suoni e pensieri, allenare un pubblico, mantenere viva una comunità, per tenere una finestra sempre aperta sul mondo».
A questo proposito, come è cambiata Ravenna da quando hai aperto il Bronson e come il Bronson ha cambiato Ravenna?
«È stato un lavoro lungo e quotidiano per così tanto tempo, che la città si è trasformata senza forse nemmeno rendersene pienamente conto. Abbiamo aperto alla musica moderna internazionale, a circuiti indipendenti prima inesplorati che ora fanno parte del linguaggio quotidiano. nonostante questo penso sempre che il pubblico ravennate dovrebbe avere più coraggio, più curiosità, perchè a volte davvero non sa cosa si perde. In questo senso mi piacerebbe poter collaborare e aprire un filo diretto con scuole e università. Fortunatamente il nostro pubblico più affezionato si allarga a tutta la Romagna e sempre più frequentemente anche ad un raggio molto più ampio, fino ad arrivare a Beaches Brew (il festival di giugno del bagno Hana-Bi, ndr) in cui ormai le presenze internazionali sono vicine al 50 percento».

Quali sono state le cose che ti hanno dato più gratificazioni in questa avventura?
«Avventura è un termine che trovo azzeccato, la gratificazione che le comprende un po’ tutte è la consapevolezza di avere posizionato Bronson Produzioni sulla mappa internazionale, sapere che questo lavoro in provincia tra mille difficoltà è stimato da pubblico, artisti e operatori in tutto il mondo. Per farti un esempio, solo poche settimane fa Costantino della Gherardesca (noto giornalista e conduttore, ospite a fine agosto all’Hana-Bi, ndr) mi diceva che era venuto a conoscenza dell’Hana-Bi mentre si trovava a San Francisco a intervistare John Dwyer degli Oh Sees, che gli raccontò di questo posto in Italia…».
Ti è capitato di scontrarti con artisti intrattabili o dalle pretese assurde?
«Lo so che i personaggi intrattabili sono sempre un elemento di curiosità, ma in genere devo ammettere che con quelli preceduti dalla loro pessima fama non abbiamo mai avuto grossi problemi, potrei citarti Blixa (Bargeld, leggendario leader degli Einsturzende Neubauten, ndr), che è il terrore di molti promoter e direttori artistici ancora oggi, ma dopo averlo portato a cena all’Osteria del Tempo Perso è immediatamente diventato il mio migliore amico: gli piace molto mangiare e bere bene. Oppure Michael Gira (degli Swans, ndr) con il quale poi sono stato anche due settimane in tour negli Stati Uniti. O il sempre polemico e indecifrabile Mark Kozelek. In realtà sono semplicemente persone che vanno trattate con rispetto e professionalità, ma allo stesso tempo guardate dritte negli occhi, se capisci cosa intendo. Le difficoltà di comunicazione più evidenti per me rimangono con gli artisti italiani che secondo parametri tutti loro si considerano “arrivati” e si dotano di inutili sovrastrutture che complicano solo la buona riuscita di un evento».

Chris Jeremy

Con Jeremy Barnes in una foto da Beaches Brew

I concerti a cui sei più legato?
Ai festival Transmissions e Beaches Brew siamo riusciti a vivere e regalare esperienze indimenticabili. Ci sono tantissimi artisti a cui sono molto legato, primo fra tutti il texano Micah P. Hinson, David Eugene Edwards (di Wovenhand, ndr), Damien Jurado, Jeremy Barnes (di Neutral Milk Hotel, Beirut e A Hawk and a Hacksaw, ndr), Stephen O’Malley (dei Sunn O))), ndr), i Moon Duo, i nostrani Bruno Dorella e Nico Vascellari. Ho anche avuto la possibilità di incontrare e lavorare con personaggi che per me erano miti assoluti, te ne cito un paio, Ian MacKaye (dei Fugazi, ndr) e Kristoffer Rygg (fondatore degli Ulver, che torneranno a Ravenna al prossimo festival Transmissions, ndr), ma potrei andare avanti a lungo anche con questa lista. Ecco, mi piacerebbe ricordare due giganti prematuramente scomparsi come Vic Chesnutt e Jason Molina».
Sei diventato ormai un’istituzione della città e ora iniziano a vedersi (più o meno) nuove generazioni che cercano forse di seguire le tue orme…
«Ti ringrazio per questo riconoscimento. Dopo tanti anni di semina abbiamo sicuramente contribuito a creare un pubblico e un’idea e una visione per l’organizzazione di eventi, a partire dall’artwork per passare dalla comunicazione fino al nocciolo della questione: i contenuti. Quest’influenza è oggi piuttosto evidente e vedo con piacere che sono in diversi che tentano di cimentarsi nel cosiddetto mondo dell’indie. Sicuramente è un motivo di orgoglio sapere di aver inserito nella quotidianità della città percorsi che fino a pochi anni fa erano considerati alieni. È molto interessante vedere come  i più giovani si ispirino al tuo lavoro, lo riconosco da tanti dettagli, alcuni chiedono consigli e forme di collaborazione, e questo mi fa sempre davvero molto piacere, altri vogliono fare le cose autonomamente, vivere la loro esperienza, fare i propri errori. Sicuramente noi abbiamo tracciato un sentiero, ma come in ogni campo è comunque necessaria una sana e dura “gavetta”».

Staff Ra2019

Christopher Angiolini (il secondo da sinistra) nella foto ufficiale dello staff di Ravenna2019

Ci sono rimpianti per Ravenna2019? Come giudichi quell’esperienza che ti ha visto direttamente coinvolto nello staff? Cosa manca a Ravenna per essere davvero una Capitale europea della cultura?
«L’esperienza 2019 è stata per Ravenna qualcosa di unico, ha creato un fermento, una trasversalità e una comunità d’intenti che difficilmente si potranno ripetere. Ovviamente come accade per ogni cosa in italia è un’esperienza che è stata strumentalizzata da ognuno a proprio piacimento. Quello di Ravenna è da sempre un problema di mentalità. Bisogna avere il coraggio di aprirsi a nuove esperienze. Ma ormai questo è il passato, guardiamo avanti, e se proprio vogliamo trovare qualcosa in cui bisognerebbe migliorare questa città è la qualità e la quantità degli spazi disponibili per la musica e le sue contaminazioni, basandosi su modelli più europei di gestione e di servizi».

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