Con il suo Middle England ha raccontato il Regno Unito ai tempi della Brexit, una scelta «irrazionale che per alcuni è diventata un feticcio»
All’insegna dell’understatement, Jonathan Coe è arrivato (per la prima volta nella sua vita) a Ravenna e ha incontrato il folto pubblico accorso alla biblioteca Classense, complimentandosi innanzitutto per la magnifica città.
Una chiusura davvero in grande per il festival ScrittuRa con uno degli autori inglesi più letti e amati in Italia (e non solo), un autore capace di trasformare la cronaca in una “storia sentimentale” per metterci in condizioni di capire cosa si prova durante un determinato periodo storico. E dopo gli anni Settanta, dopo l’Iraq, questa volta il grande tema è la Brexit. E se all’inizio dell’incontro cerca di convincerci che scrive solo per se stesso, per una spinta che sente da quando aveva 7 o 8 anni e che per lui scrivere significa innanzitutto dare una forma alla sua vita, ben presto viene fuori l’autore che conosce e maneggia sapientemente e con profonda consapevolezza tutti gli strumenti del mestiere e scrive per essere letto dal maggior numero di persone possibile. Il suo personale modo di colmare il gap tra la “metropolitan liberal élite” (quelli che noi potrebbe definire intellettuali o radical chic, tema che allo ScrittuRa si è affrontato in un altro bell’incontro con l’autore Giacomo Papi) e il cosiddetto “popolo”.
Ma questo Middle England, ci dice, ha a che fare anche con un altro (divertentissimo) libro: Expo 58. Cioè ha a che fare con la costruzione di un’identità nazionale. «Io mi sento molto inglese e mi sento molto europeo. Quel referendum ci ha posto di fronte a una scelta binaria, se essere l’uno o l’altro. Ma io sono e voglio essere entrambi, come tanti altri». Ma cosa significa essere inglese oggi? La risposta di Coe si applica perfettamente anche a qualsiasi altra identità nazionale, magari meno strutturata di quella britannica: «Oggi ognuno ha il suo modo di vivere la sua “britannicità” o “italianità”; le identità sono sempre più complesse e stratificate». E quando gli chiediamo, a proposito di identità e stratificazioni, se il linguaggio politically correct possa diventare un limite ci risponde: «Sono piuttosto favorevole a un linguaggio politically correct, perché siamo sempre tutti liberi di dire ciò che vogliamo. Non siamo liberi di offendere qualcuno senza venire per questo criticati e attaccati».
L’edizione 2019 è finita, ma il direttore ha già dato appuntamento a tutti per l’8 settembre con una grande sorpresa. E considerando i nomi che sono arrivati finora in città (tra cui quello di Peter Cameron e Lisa Halliday, solo per stare ai più recenti), c’è da aspettarsi davvero di tutto, o quasi.