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    Categoria: cultura

Alla ricerca della bellezza “distorta” tra le foto impeccabili di Paolo Roversi

La nostra visita alla mostra del Mar dedicata al grande fotografo internazionale di origini ravennati. Chiude 6 giugno

Mentre fa discutere la “censura” al profilo Facebook del museo d’arte di Ravenna per una foto di nudo postata per promuovere la rassegna dedicata al grande fotografo internazionale Paolo Roversi, ecco una recensione/guida alla mostra – da non perdere – che è ancora aperta alle visite per una settimana.

Riaperta a fine aprile con il passaggio in zona gialla e aperta al pubblico fino al 6 giugno, la mostra fotografica di Paolo Roversi è un buon antidoto alle difficoltà del periodo: la bellezza delle immagini del fotografo ravennate infatti è insindacabile e la felicità degli occhi garantita.

Roversi inizia la carriera di fotografo nel 1970 a Ravenna: lo studio è PhotoGraphis in via Cavour, aperto assieme a Giancarlo Gramantieri. Tre anni dopo, Roversi è a Parigi dove agli inizi lavora come assistente di Laurence Sackman e poi apre il proprio studio dal nome sintomatico di Studio Luce, una derivazione dalla prima esperienza di PhotoGraphis – segni di luce – e un atto di poetica in sé, data l’importanza attribuita dal fotografo alla luce e al suo opposto.
Da qui in poi la carriera è aperta e Roversi è oggi quello che tutti conoscono: un fotografo specializzato nel campo della moda che lavora per case come Dior, Armani, Yves Saint Laurent e per riviste come “Vogue” e “Vanity Fair”, che esegue ritratti di star internazionali come Sting, Rihanna o Kristen Stewart e lavora o ha lavorato con modelle-icone da Kate Moss a Naomi Campbell e Natalia Vodianova, senza abbandonare l’amore per scatti di still life – sgabelli presi dalla strada e posizionati in studio oppure strumenti di lavoro fra cui la fedelissima Deardoff – o per still tratti da viaggi che riprendono interni di case o bimbi in abiti locali.

Il fotografo di fama mondiale Paolo Roversi

Fin qui tutto quadra e spiega l’omaggio che la sua città natale rende ad un concittadino dopo 50 anni di attività a questi livelli e una perizia tecnica tale da ottenere immagini sempre impeccabili. Ma la perfezione non basta e i tre piani di immagini che inseguono il lavoro di Roversi attraverso gli anni – scatti di lavoro ma anche inediti di archivio mai esposti fino al recente Calendario Pirelli 2020 da cui è scaturito anche un cortometraggio – vanno esplorati alla ricerca di quella bellezza sporca, impura e distorta che risulta molto più interessante.

Non ci soffermiamo quindi su tutta una serie di fotografie di donne e uomini talmente belli da coprire in un certo senso la ricerca di Roversi: l’incanto che inevitabilmente sorge davanti a questi eccessi di natura rende quasi opache alcune scelte dell’autore come la costante esecuzione degli scatti in studio su fondali neutri spesso trattati con effetto flou – in modo da creare una sorta di unità fra soggetto e sfondo – oppure l’insistenza sul rapporto luce e gradazioni di ombra da cui quasi emergono i volumi dall’oscurità o viceversa si staglia una figura per contrasti. Per questo tipo di scatti lo spazio è percepito come un vuoto, una sorta di palcoscenico virtuale in cui si palesano delle presenze effimere, votate ad una malinconia di sguardi che è un tutt’uno con quella di chi sta dietro alla macchina fotografica.

Più efficaci ci sembrano le foto che mettono una maggiore distanza fra il soggetto e l’occhio, sottraendolo ai legacci dello stupore: parlo quindi di una serie di immagini di moda come Audrey (1998) in cui il soggetto è reiterato nel movimento più volte o bloccato come un manichino tanto da ricordare o gli esperimenti di Muybridge e le sperimentazioni teatrali futuriste e dada. Le immagini di Roversi non si sottraggono dall’ambito della moda di cui si nutrono ma dispongono sempre di un’aggiunta, pongono uno scarto rispetto al capo indossato: che sia la virata in blu in Kirsten (1997) dove la testa diventa una sorta di emblema della perfezione classica o che sia la maschera di Kasia (2007) – una citazione in piena regola dei fotomontaggi dadaisti di Hannah Höch reinterpretati in chiave contemporanea – l’esito non mette in ombra la funzione della foto legata alla moda ma aggiunge qualcosa che apre le porte dell’arte.
Sono immagini spesso inquiete come la serie di Audrey (1996) in cui le masse sfolgoranti rosse e arancioni degli abiti diventano parte integrante di un mondo immaginario, solarizzato, quasi immerso in profondità marine. Anche un soggetto tradizionale come il nudo femminile sfugge allo stereotipo: lo fa presentando una bellezza morbida come quella di Tess (2020) – in un bianco e nero da cui emerge solo la cascata di capelli rossi della modella – oppure producendo in serie (1993-2003) nudi maschili e femminili talmente sovraesposti da apparire come disegnati a matita su carta.

Nelle fotografie più recenti per Dior del 2017 modelle, abiti e sfondo diventano un tutt’uno in un gioco di ombre dovuto all’effetto flou diffuso che lascia a fuoco solo la macchia colorata dell’abito: rimane l’incedere e l’eleganza del passo dei corpi a testimoniare una figura che sembra uscire di scena, fare una giravolta prima di tornare nell’indistinto. Solarizzazioni tipiche di Man Ray e attualizzate da Roversi, fortissimi contrasti di colore su fondi neri dove gli abiti si trasformano in crisalidi di fuoco, sovraesposizioni che corrodono i volumi fino a definirsi solo per contrasti profondi: è qui che la bellezza si svela, qui dove raggiunge la tensione massima prima di sbiadire forse per sempre.

Paolo Roversi – Studio Luce; MAR Ravenna; fino al 6 giugno 2021. Orari: dal martedì al sabato dalle 9 alle 18; domenica dalle 11 alle 19; lunedì chiuso. Per il sabato, la domenica e gli altri festivi la prenotazione è sempre obbligatoria e deve essere effettuata entro le 24 ore precedenti la visita.