La sensibilità di Giulio Ruffini, nell’intensa rassegna di Bagnacavallo

Al Museo delle Cappuccine è aperta fino al 4 luglio “L’epica popolare e l’inganno della modernità”

Mostra Ruffini Bagnacavallo

Forse questa è l’ultima mostra di Bagnacavallo curata dall’attuale direttore del Museo delle Cappuccine – Diego Galizzi – in procinto di prendere in carico i musei di Imola; seguendo il filo della memoria del territorio, una delle tracce perseguite dalla matura programmazione dello spazio museale, Galizzi dedica una intensa esposizione a un personaggio che ravennati e romagnoli conoscono bene.

Nell’occasione del centenario della nascita, la mostra indaga il lavoro di Giulio Ruffini (1921-2011), pittore nato a Glorie di Bagnacavallo che dal 1942 si forma a Cotignola presso la scuola di Varoli assieme ad altri noti artisti locali e che dal 1956 si trasferisce a Ravenna coprendo per 30 anni la cattedra di Disegno e figura al Liceo artistico cittadino.

Giulio Ruffini Ritratto

Ritratto giovanile di Giulio Ruffini

Non si tratta di una retrospettiva su tutta la lunga produzione dell’artista ma di una indagine su una ventina circa di anni, dai primi lavori in tempo di guerra fino al 1967, l’anno in cui la vena dell’artista vira verso un intimismo che guarda con nostalgia ad un mondo in via di estinzione fino ad approdare a soggetti quasi simbolici. Prima di questo anno la produzione del pittore rimane fedele a temi popolari di cui si è nutrita la sua infanzia, visti attraverso un realismo condiviso da un’ampia fronda di artisti, letterati e registi.

L’autoritratto del 1945 è già una prova di una mano felice e di una produzione colta che mescola realismo ad inquadrature di sapore dechirichiano, dove si rileva un senso di assenza derivata dal Realismo magico. Il suo apprendistato è veloce ed applicato a temi ispirati alla propria esperienza e valorizzati dalla scuola di Varoli: si tratta di ritratti e vedute di intimità domestica (Vecchia seduta, 1950) assieme a nature morte in cui la sintesi di colori e forme riporta un forte interesse verso Cézanne. Dal 1950, la riduzione del dipinto nella gamma cromatica e nelle forme geometriche diventa più lampante (Natura morta con bricco nero, 1954) come se la lezione di Cézanne e dei suoi epigoni cubisti aprisse una breccia ancora più ampia.

Il primo approdo alla visibilità nazionale è raggiunto nel 1952 quando Ruffini vince il Premio Suzzara con una Pietà per il bracciante assassinato in cui la lezione cézanniana si rimodula su una memoria rembrandtiana: non è l’ideale politico a spingerlo a questi temi ma la condivisione di un mondo di cui aveva sperimentato miseria, durezza, fatica. Goya, Guttuso e Picasso, di cui Guernica viene esposta a Milano proprio nel 1953, sono i modelli a cui attingere per la serie di Crocefissioni e Fucilazioni del periodo, modellate con forza ma senza sentimentalismo.

Il 1954 è l’anno in cui Ruffini realizza la prima personale a Bologna e riceve l’invito alla Biennale di Venezia (Due braccianti che riposano), riuscendo a ottenere una visibilità nazionale. Agli stessi anni appartengono alcune prove di piccole dimensioni (Operai delle saline di Cervia, 1952; Contadine, 1954) in cui è evidente una grande dimestichezza col colore e i bilanciamenti delle forme. Nel 1954, la frequentazione di Mattia Moreni conduce a ulteriori esiti: la riduzione dei soggetti permane, anzi si fa più stringente, mentre perdono la propria tenuta tridimensionale assumendo vibrazioni espressive, tremando sotto l’indagine dell’occhio (Natura morta con funghi e pigne, 1960).

Il trasferimento nel 1957 a Ravenna è anch’esso uno spartiacque che sposta l’attenzione dell’artista sulla dimensione cittadina. La sensibilità di Ruffini coglie già i segni della fine della civiltà rurale – quasi in sincrono con le pagine di Pasolini – e il trapasso a una dimensione consumistica che apre alla contemporaneità. La bella serie delle Case a Ravenna (1955, 1957) trattengono un mondo sempre più evanescente che approda negli anni ’60 a una nuova serie di Crocefissioni e scene di macelleria che – nel debito a Rembrandt e Soutine – inquadrano la solitudine ereditata dalla modernità. Per quanto con esiti diversi, è la denuncia di quella solitudine che Antonioni cristallizza in Deserto rosso.

Orari di apertura della mostra (aperta al pubblico fino a domenica 4 luglio): lunedì, martedì e mercoledì 15-18; giovedì 10-12 e 15-21; venerdì 10-12 e 15-19, ingresso libero

 

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