Cinquant’anni di Ravenna Jazz: «L’unico rimpianto è Miles Davis»

I ricordi della direttrice Sandra Costantini: «Che giornate con Pat Metheny e Max Roach. Un aneddoto? Noa che bacia le mani a un giovane Bollani, ancora sconosciuto…». Il cartellone del festival

Sandra Costantini

Sandra Costantini, direttrice artistica di “Ravenna Jazz”

Con la passione e l’entusiasmo che le sono propri, Sandra Costantini parla del “Ravenna Jazz”, lo storico festival di cui è direttrice artistica, la cui 50esima edizione è in programma quest’anno dal 4 al 13 maggio al teatro Alighieri e in altre location (il programma nella pagina a ­anco). Ci vorrebbe un libro per raccontarne l’evoluzione nel tempo, ma lei tratteggia alcuni dei momenti salienti.

Come le piace de­finire l’edizione di quest’anno di “Ravenna Jazz”? Quali i punti di forza?
«Direi “scon­nata”, soprattutto perché la musica sarà senza con­ni, senza barriere… Si spazia dal blues di Irene Grandi al jazz del concerto dei piccoli musicisti di “Pazzi di Jazz” dedicato a Charles Mingus, del quintetto di Alessandro Scala e della produzione in omaggio a Nina Simone con Italian Jazz Orchestra, Maria Pia De Vito e Flavio Boltro. Si viaggia dalla chitarra fusion del giovane prodigio Matteo Mancuso al cantautorato rock-folk-blues di Hugo Race, dall’alto voltaggio jazz-househip hop-afro del Neue Gra­c Ensemble al rock dei Led Zeppelin rivisitato dal trio di Francesco Bearzatti, dall’etno-jazz di Daniele Sepe nel suo tributo alle colonne sonore dei ­lm di Totò alla musica afro-peruviana della grandissima Susana Baca».

Il festival compie quest’anno 50 anni, un traguardo importante. Il primo piccolo bilancio che le viene in mente?
«Essere sopravvissuti a tutte le situazioni critiche che nel corso del tempo si sono susseguite è già un miracolo! Ultimamente poi il contesto è stato penosamente diffi­cile, tra pandemia, guerre, disgregazione sociale, in‑azione, tagli ai contributi regionali e comunali, aumento esponenziale dei costi… 50 anni senza perdere un’edizione sono un record da Guinness! Speriamo in un futuro migliore, c’è tanto da ricostruire».

C’è un’edizione che porta particolarmente nel cuore e perché?
«Sarebbero tante, ma volendo citarne una direi il trentennale del 2003, interamente dedicato a Pat Metheny “Artist in Residence”. Furono tre giorni intensissimi, in cui il grandissimo chitarrista si rivelò essere anche persona squisita, di eccezionale comunicatività e di non comune disponibilità. Si produsse in svariate formazioni, dal solo al trio con Paolino Dalla Porta e Massimo Manzi, in duetti con Rita Marcotulli, con Andy Sheppard, con il funambolico Han Bennink, col nostro immenso Enrico Rava per fi­nire in bellezza in veste di ospite del suo quartetto con Stefano Bollani, Rosario Bonaccorso e Roberto Gatto… In quei tre indimenticabili giorni Pat tenne anche un workshop con centinaia di studenti accorsi da ogni dove, da tutta Italia ma anche da oltre con­ne. La città era letteralmente invasa da una miriade di giovani con le chitarre a tracolla».

C’è un artista che più di altri ha segnato il festival?
«Nella sua lunga e importante storia, “Ravenna Jazz” ha ospitato diversi grandiosi artisti che hanno lasciato la loro impronta indelebile. Ricordiamo almeno Max Roach, con la sua M’Boom Re Percussion (1980), in duo con Abdullah Ibrahim (1983) e con Cecil Taylor (1984). Nel 1984 tenne a Ravenna anche il primo dei workshop di Mister Jazz, dopo il preludio con Kenny Clarke del 1982: il nome della rassegna, la cui gra­fia era originariamente “MisteR Jazz”, fu ispirato proprio a lui, laddove la “M” stava per Max e la “R” per Roach… Nell’ambito del progetto “Residenze” di Crossroads 2001, nei giorni a lui dedicati contribuimmo a fargli conferire la Laurea Honoris Causa dall’Università di Bologna (Dams). Ma voglio menzionare anche “il Re del jazz” italiano Enrico Rava, che tra il 1982 e il 2022 ha calcato il palcoscenico del festival ben 12 volte, con progetti sempre diversi. Citiamo poi almeno la super band “Complete Reunion” con Gato Barbieri, Stefano Bollani, Rosario Bonaccorso e Aldo Romano nel 2001, il quartetto “Chet Mood” in tributo a Chet Baker del 2007 con Philip Catherine, Riccardo Del Fra e Aldo Romano».

Un aneddoto che merita di essere raccontato?
«Edizione 1999. Alla Rocca Brancaleone, prima del trio di Brad Mehldau, si esibisce un giovanissimo Stefano Bollani con la sua Orchestra del Titanic: ha appena 27 anni, e non è ancora la star che sarebbe diventato. In platea siede anche Noa, in programma la sera successiva con la sua band. Finito il concerto, Noa vuole andare nei camerini a complimentarsi col bravo pianista, gli bacia addirittura le mani! A dimostrazione che i grandi artisti affermati sanno riconoscere subito un grande talento quando lo incrociano…».

C’è un artista che avreste voluto portare al festival e non è mai stato possibile?
«Sì. Io, ai tempi mi occupavo, dell’uffi­cio stampa… Miles Davis: è l’unico grande assente nel palmarès di Ravenna Jazz. Nel 1991 purtroppo scomparve e con lui ogni futura possibilità».

Cos’è il jazz oggi, per lei?
«È un lunghissimo racconto, senza ­ne, che continua a scriversi, con parole sempre diverse. È un linguaggio in perenne cammino, con cui si può narrare qualunque storia, e non mancano i narratori, navigati e novelli, che sanno interpretarlo magnifi­camente. È un idioma scritto e orale, con proprie regole ma che si possono tranquillamente stravolgere. E tocca le corde più profonde, quelle delle emozioni».

Cosa si può fare per migliorare ulteriormente nel prossimo futuro?
«Continuare a lavorare sodo, reinventarsi senza sosta, e soprattutto non perdere la passione»

Ravenna Jazz Irene Grandi 2

Irene Grandi

Il programma: Irene Grandi all’Alighieri, concerti tra Bronson, Cisim, Mama’s e Socjale

Dopo l’evento-anticipazione di giovedì 4 maggio con il progetto “Pazzi di Jazz” che ha visto sul palco dell’Alighieri  esibirsi una grande orchestra e cori di studenti delle scuole ravennati sulle note delle composizioni di Charles Mingus, e la serta successiva il concerto della band di Alessandro Scala al Mama’s Club, l’edizione 50 di “Ravenna Jazz” entra nel vivo della programmazione sabato 6 maggio sempre al teatro Alighieri con  Irene Grandi.
La cantante presenta “Io in Blues”: un progetto live nel quale trovano posto i grandi successi del blues e del soul ma anche brani di Pino Daniele, Lucio Battisti, Mina e della stessa Grandi, riarrangiati in chiave rock-blues. Concerti anche al Teatro Socjale di Piangipane: martedì 9 maggio, arriverà la peruviana Susana Baca, indiscussa ambasciatrice nel mondo della musica afro-peruviana.
Due concerti anche al Cisim di Lido Adriano. Domenica 7 maggio il cantante e chitarrista australiano Hugo Race (con un passato con Nick Cave and the Bad Seeds che non si può non citare) con i suoi Fatalists propone un rock dall’animo oscuro, elementi folk e blues psichedelizzati.
Con il suo ensemble, il tastierista francese Neue Grafik rimescola tra loro jazz, house e hip hop, con marcate connotazioni afro ed evidenti infiltrazioni dalla dance elettronica londinese (mercoledì 10 maggio sempre al Cisim).
Al Bronson di Madonna dell’Albero il jazz si connette alle sonorità underground. Qui l’8 maggio si esibisce il giovane chitarrista Matteo Mancuso, un talento senza preconcetti (jazz, rock, fusion, manouche). Uno sguardo al passato per dare vita a sonorità futuristiche: è l’omaggio ai Led Zeppelin firmato dal sassofonista Francesco Bearzatti (in trio, giovedì 11 maggio sempre al Bronson).
Il festival prosegue ancora, venerdì 12 maggio al teatro Socjale con il sassofonista Daniele Sepe che presenta “Sepé le Mokò” un progetto musicale dedicato a Totò principe della risata, per concludersi con un gran finale, sabato 13 maggio, la teatro Alighieri, che vede in scena l’Italian Jazz Orchestra diretta da Fabio Petretti (solisti ospiti Maria Pia De Vito e Flavio Boltro) ad eseguire “Love me or leave me”, omaggio all’indimenticabile repertorio di Nina Simone.

 

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