La magistrale impurità di “Don Chisciotte ad ardere”

Lo spettacolo di Ermanna Montanari e Marco Martinelli incastra vari registri in un “teatro dei molti” in grado di mescolare immaginario, letteratura e vite plurali

Don Chsciotte Montanari Martinelli

Ermanna Montanari e Marco Martinelli sulla soglia di Palazzo Malagola introducono “Don Chisciotte ad ardere” (foto Marco Casella Nirmal)

– …Ancora insegui sogni, vecchio? –
– Sissignore. Così le fatiche del cammino diventeranno storie da rac- contare –
– Anche quelle che finiscono male? –
– Non importa la fine …esistono solo storie ben raccontate –

Utilizzo impropriamente l’ultimo dialogo fra Don Chisciotte e Sancho Panza nel bel film di Terry Gillian uscito nel 2018 (L’uomo che uccise Don Chisciotte) costato un inferno al regista.

La sostanza è che esistono solo storie ben raccontate ed è questa l’idea con cui si esce dallo spettacolo Don Chisciotte ad ardere – anzi, dalla prima parte visto che, come nel caso della Commedia, il tragitto drammaturgico prevede un lavoro da concludersi in tre anni – portato in scena da Teatro delle Albe-Ravenna Teatro e prodotto da Ravenna Festival, fino al 16 luglio a Palazzo Malagola.

Dopo Dante, è un altro colosso della letteratura mondiale a farsi pasta per quella trasformazione e traduzione in linguaggio teatrale sotto la mani di Ermanna Montanari e Marco Martinelli che firmano la regia della trasposizione teatrale del capolavoro di Cervantes. A distanza di quasi tre secoli dalla Commedia dantesca, il Don Chisciotte ne condivide la grandezza e la capacità di creare mondi paralleli ma abbandona il solido impianto filosofico per addentrarsi in un sentire più moderno: quel vivere fra sogni e vita, sanità e follia, rifrazioni di specchi e interpretazione univoca del reale, indovinelli-tramas de intrigas e presunta realtà, tipici della produzione tardocinquecentesca e soprattutto barocca. Non mancano qui le infiltrazioni filosofiche: la malinconia del nostro hidalgo – per quanto presa in giro, malamente interpretata da Sancho e rovesciata in burla da Cervantes – ha radici nella ripresa neoplatonica del ‘400 e trapassa come un vento torrenziale dall’inglese Robert Burton al russo Starobinskiy fino alle più recenti pagine di Eugenio Borgna. Il pazzo cavaliere errante di Cervantes confonde fantasie e realtà, seguendo gli stati della malattia malinconica che procede da una proliferazione incontrollabile di immagini interiori.

Puntualmente, il lavoro di Marco e Ermanna è costellato da immagini che facilitano la traduzione dal linguaggio del romanzo a quello teatrale come nella comparsa della maga Hermanita – colei che imbroglia i fili – dal balcone di Palazzo Malagola. Insieme al mago Marcus, che i fili li insegue, intrepretano due figure fondamentali, rivestendo la funzione narrativa che nel romanzo è destinata a Cide Hamete Benengeli – lo storico arabo di cui Cervantes afferma nel prologo di aver trovato un manoscritto che racconta la storia del cavaliere –, dall’altro riconfermando la potenza della magia immaginifica e l’inaffidabilità narrativa che conduce la storia.

La maga accoglie il pubblico dall’alto in un linguaggio franto, contaminato, che esce da una testa “spapolà” in grado di restituire agli spettatori non certezze ma solo domande oltre a un’accoglienza incondizionata tramite Marcus e una porta, di qua dalla quale si lascia a terra ogni legame col mondo reale. Comincia dalla prima stanza la sequenza delle immagini, trasferite in tableaux vivants attraversati da scosse performative e moltiplicate dalle tracce visive di Stefano Ricci. A ciascun spettatore – da qui trasformato fino alla fine in un vero e proprio errante – viene consegnato lo scritto di un sogno, meraviglioso o terribile che sia, partorito dalle fantasie notturne delle cittadine e cittadini che hanno risposto alla chiamata pubblica per la realizzazione dello spettacolo.

Nell’androne si trascrivono sogni e si cuciono libri di sogni alle note di un canto sefardita per la bella voce di Serena Adami. Gli erranti attraversano poi a piccoli gruppi le stanze del palazzo fino alle soffitte attraversando la membrana dei sogni: una donna si taglia i capelli, due anziani si abbracciano, un gruppo di militari sono appostati, una stanza è piena di grano, un’altra è un mattatoio odoroso di sangue, dietro a uno specchio due bambine giocano a castelli di sabbia, poi si attraversa una stanza alchemica. Il labirinto dei sogni – ma sono sogni o metafore del reale? – che ha disorientato gli erranti ha termine nel cortile, dove inizia la storia di Don Chisciotte, del fido Sancho e della bella Dulcinea.

Tradotto e giocoforza tradito – perchè altro non sarebbe possibile per una bella storia – il testo di Cervantes si presta ad una selezione di eventi e personaggi: il burattino che la maga manipola è uno dei demoni visti da Don Chisciotte nel romanzo mentre l’azione – inframezzata dalle musiche della band Leda, dalle azioni e danze dei coreuti, dai movimenti direttivi di Luca Fagioli simile a Orson Welles – unisce varie vicende tratte dal romanzo, trasfigurate, irriconoscibili: dall’incontro coi pastori agli avvenimenti nella locanda che per Chisciotte è un castello, dalla storia di Marcella che fugge l’amore perchè vuole star da sola alla liberazione dei carcerati del re. Lo sviluppo drammaturgico mescola il racconto alla cronaca contemporanea, la linea del passato e le tensioni di oggi, le visioni dell’eroe e i sogni di persone contemporanee, il testo di Martinelli e Montanari e gli elaborati scritti nei laboratori dalle persone adulte e adolescenti che hanno risposto alla chiamata pubblica.

Proseguendo l’esperienza passata, il Don Chisciotte ad ardere incastra perfettamente vari registri attuando un “teatro dei molti” in cui letteratura e vite plurali cadenzano una drammaturgia sperimentale, portavoce pari dignità di un materiale impuro, marchiato da quella sincerità che solo le vite – quelle non astratte ma reali – possono dare.
Testimone di questa magistrale impurità è un brano imperdibile incastonato nel dialogo fra Ermanna e il coro, perduti in un gioco di specchi e di una glossolalia imitativa che distrugge la lingua e la sfoglia fino a lasciare solo l’essenzialità del tremito dei corpi: convulsi, brutali, amorevoli, struggenti, fantasmatici.

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