Quest’estate ho avuto l’occasione e la fortuna di assistere agli spettacoli, Se resistere dipende dal cuore. Ascoltando Amelia Rosselli e Due regine, che hanno vista Elena Bucci protagonista come autrice, regista e attrice di questi due eventi teatrali prodotti e programmati al Ravenna Festival 2023. Partendo da queste messe in scena, ho cercato con una conversazione a tu per tu, di scoprire la vena creativa e gli interessi culturali della pluripremiata e sempre applauditissima artista del teatro italiano.
Elena, come mai ha scelto di portare sul palco Amelia Rosselli, poetessa e musicologa del Novecento, le cui poesie sono sperimentali e spesso difficili da comprendere?
«Amelia Rosselli è una poetessa che ha avuto una grande fama e fa parte di un momento storico, culturale e politico nel quale si osava moltissimo e c’era una gran voglia di comunicare tra artisti e di esplorare. Roma era un grande luogo di incontro di artisti di tutte le matrici: per me è da sempre una fissazione riuscire a creare una comunicazione tra le arti. La stessa Rosselli dice “se potessimo tornare all’epoca dell’antica Grecia quando le arti, come la musica, la danza e il teatro, erano intrecciate”. Inoltre, Luigi Ceccarelli aveva lavorato negli anni ’80 con un gruppo di danza diretto da Lucia Latour e aveva registrato la voce di Amelia Rosselli, che partecipava a uno spettacolo ma cominciava a soffrire per le sue manifestazioni di schizofrenia. L’aveva registrata mentre leggeva una parte di Impromptu e Diario in tre lingue per inserirla nello spettacolo nel caso in cui lei non avesse potuto proseguire le repliche. Sono sempre stata affascinata dal mondo degli anni ’60, ’70, ‘80; un mondo creativo, potentissimo, libero, che rompeva le regole ogni volta e apriva nuove vie. Come allora, l’arte dovrebbe ascoltare il mondo dove è e creare nuovi mondi. Ero curiosissima ma anche spaventatissima perché non sono una musicista, tantomeno di elettronica, anche se conosco la musica e suono il pianoforte. Mi piace misurarmi con il mondo della musica. Abbiamo iniziato a lavorare con questa sfida: tutto il suono è la musica che esce dalla mia voce. E così è stato. Abbiamo cominciato a fare delle prove qui in Romagna improvvisando. L’improvvisazione ci permette, a ogni ripresa del lavoro, di modificare sia il testo sia il nostro modo di intendere questa musica».

La musica era centrale nello spettacolo come lo è nella poesia di Amelia Rosselli.
«Abbiamo cercato di rispettare la tensione a tenere avvinte la musica e la poesia: non sono scindibili nella poetica della Rosselli. Io, Luigi Ceccarelli e il direttore artistico del Ravenna Festival Franco Masotti ci siamo detti che ci sarebbe bisogno di tornare a raccontare al pubblico cosa succede: forse non si percepisce fino in fondo quanto ci sia solo la mia voce, quanto io debba lavorare come musicista e quanto Luigi da drammaturgo. Lo spettacolo si crea in gran parte con il pubblico al fine di riaprire una via di improvvisazione che sembra essersi chiusa a tratti».
Qual è stata la sua preparazione per Se resistere dipende dal cuore?
«Ho letto tutto quello che ho trovato: ho letto le poesie, le interviste, ho fatto delle selezioni perché ho pensato che la maggior parte del pubblico non sapesse neppure chi fosse Amelia Rosselli. Ho fatto delle scelte che potessero fornire una chiave a tutti, sempre rispettando la complessità. Non volevo mettere un muro che impedisse la comprensione. Dunque, ho prima immagazzinato tutto, poi ho fatto delle improvvisazioni e ho scelto all’impronta cosa era importante per me, poi mi sono rimessa a tavolino e ho rielaborato il testo. Io e Luigi abbiamo stabilito di inserire anche dei punti complessi come quelli di Spazi metrici o di Diario ottuso che però, messi in una cornice di un certo tipo, riuscivano a parlare non solo a noi che la conoscevamo ma anche alle persone. Spero che questo lavoro continuerà perché ogni volta si aprono degli squarci; tutto è intrecciato con il suono. Ho preso coraggio come musicista: mi sono trovata di fronte all’élite “Nuova consonanza”, formata da musicisti elettronici rigorosissimi che hanno, tra l’altro, vissuto in quegli anni. L’esito è stato talmente entusiastico che ha dato coraggio a entrambi per il piacere di mescolare le nostre arti. Sono sempre pioniera nell’apertura degli spazi e delle arti: si paga con della fatica iniziale, poi però dà una grande soddisfazione».

Ha messo anche in scena Due regine, in cui le due storiche protagoniste sono Elisabetta Tudor e Maria Stuart, due donne e due rivali…
«La loro è una forma di rivalità nell’arte o nel potere che però diventa emulazione e ammirazione l’una dell’altra. È conferma del percorso che si sta facendo per dare spazio a una creatività di minoranze sottomesse. Questo è stato ed è ancora così, quando si parla del potere del genere femminile; basta guardare i numeri e non possiamo non riscontrarlo. All’inizio Due regine l’avevo fatto da sola, l’avevo scritto immaginando di fare io le regine con due voci diverse. Poi quando Chiara Muti mi ha proposto di lavorarci insieme, io ho sviluppato un po’ la parte di Elisabetta, ho connesso meglio le due ed è uscito questo nuovo lavoro, dove alla base c’è l’immagine della vicinanza, seppure in una guerra continua, di queste due donne. La guerra è indotta da un’impossibilità di incontro generata da un sistema di potere che era troppo forte e troppo radicato per essere cambiato nel corso di una vita».
Come si avvicina la vicenda di Due regine alla nostra epoca?
«È molto vicina alla nostra storia. Basta vedere la gestione del potere: siamo in un’epoca in cui stanno ritornando gli assolutismi; è come se la gente non sapesse più che cosa farne della democrazia e stiamo correndo verso una sovranità quasi pre-settecentesca. È una tendenza mondiale risolvere le situazioni con le guerre e manovrare il potere attraverso il divide et impera. Allo stesso tempo però c’è il tentativo di alcuni di privilegiare la pace e la cultura come hanno fatto le due regine. Elisabetta e Maria non hanno mai scisso il potere dalla diffusione della cultura e dell’arte; sono voci solitarie in quell’epoca, rivoluzionarie e avanti sui tempi. Elisabetta in qualche modo ha cercato di usare la diplomazia per evitare le guerre e per fare in modo che il popolo si istruisse. Nella sua gestione del potere il pensiero, la riflessione e la strategia politica non erano solo una forma di opportunismo per un potere personale ma erano messe al servizio per il benessere di tutti. In generale, ci sono tantissimi elementi che offrono degli spunti per la contemporaneità. C’è il bisogno di entrare nei particolari della storia per avere una luce sul presente, in cui siamo smarriti spesso da notizie contraddittorie».

Come nasce la collaborazione con Chiara Muti?
«Con Chiara che aveva intrapreso la carriera di attrice ci siamo incrociate molti anni fa. La madre Cristina Mazzavillani, allora presidente e direttrice del Ravenna Festival – che ha creato insieme agli altri direttori artistici Franco Masotti e Angela Nicastro – mi ha dato fiducia sin da subito nei miei progetti solitari. Ho iniziato con una trilogia di testi di Nevio Spadoni. Ho lavorato subito per lei e mi ha dato in mano un progetto su Galla Placidia dentro la basilica di San Vitale di notte. È stata un’emozione incredibile. Dopo mi è stato proposto di fare la regia su Francesca da Rimini per Chiara Muti e poi abbiamo creato un lavoro insieme sull’amore di Teresa Guiccioli e Lord Byron e ci siamo trovate bene e abbiamo proseguito con un lavoro su Shakespeare e su Dante. Dopo un’interruzione – Chiara ha lavorato soprattutto come regista nell’opera lirica ed è andata a vivere in Francia per un po’ – abbiamo intessuto un filo di grande vicinanza sia sulla concezione del lavoro artistico femminile sia sul modo di lavorare. Tra noi non c’è rivalità ma c’è emulazione: ognuna di noi ammira nell’altra quello con non ha e cerchiamo di mettere insieme il nostro patrimonio. Entrambe abbiamo il desiderio di dare questo segnale di vicinanza, complicità e felice collaborazione tra donne».
Lei è fondatric e animatrice della compagnia Belle bandiere, avete ancora sede a Russi?
«C’è questa sede ideale che è a Russi. In realtà noi siamo nati a Bologna, tra Bologna e Russi. L’esperienza da cui è nato il primo spettacolo è all’interno del teatro di Leo de Bernardinis. Abbiamo creato un gruppo molto numeroso e forte che ha portato alla riapertura del teatro a Russi, della chiesa settecentesca, dell’ex macello, palazzo San Giacomo in mezzo alle campagne, case rurali. Questi spazi erano tutti chiusi. Per riaprire il teatro abbiamo fatto spettacoli ovunque, anche in ex fabbriche dismesse. Forse non abbiamo mai raccontato a dovere la nostra storia. Eravamo talmente impegnati nel lavoro che non ci siamo dedicati abbastanza alla campagna promozionale. Se fossimo stati in una grande città forse saremmo stati più visti. Abbiamo fatto un progetto chiamato “Archivio vivo”, attraverso il quale stiamo riordinando i materiali. Di fatto, non abbiamo nulla da un punto di vista politico, non abbiamo alcun incarico ufficiale, nessuna concessione di direzione artistica e nessuna convenzione. Quando abbiamo bisogno del teatro ci viene concesso, ma non abbiamo alcun potere decisionale sulla stagione. Collaboriamo con moltissimi enti, ma la nostra sede spirituale è qui. Spesso ospitiamo attori o tecnici. Abbiamo ottimi rapporti con il Comune di Russi».
È singolare, a volte viene raccontata la storia delle istituzioni e dei luoghi, ma raramente la storia delle persone che poi li creano.
«Io faccio laboratori dappertutto ma mi sarebbe piaciuto evidenziare in maniera pubblica quello che sta succedendo qui a Russi: molti artisti si rivolgono a me e al mio compagno d’arte, l’attore e regista Marco Sgrosso, e li aiutiamo a portare a termine i testi e gli spettacoli, creiamo delle situazioni di studio e lavoro. Spesso coinvolgo gruppi di artisti per occasioni di condivisione di percorsi e di una possibile trasmissione di saperi. Pochi mesi fa ho parlato con la Sindaca al fine di creare un centro qui, dove sia visibile ai cittadini e al paese il lavoro di creazione – che magari in altri luoghi è più valorizzato – e provare a valorizzarlo. Mi piacerebbe dare una forma più visibile a un lavoro sotterraneo che prosegue da anni».

Che obbiettivi avete in particolare sul piano culturale ma anche sociale?
«C’è un desiderio di rendere più animati questi spazi, in un momento in cui si rischia di perdere un alfabeto comune con le nuove generazioni. Alcuni non hanno gli strumenti per capire quali sono i codici del teatro. È un mio desiderio aprire un percorso di alta formazione in cui il lavoro degli appassionati si incrocia con quello dei professionisti senza confondersi ma arricchendosi gli uni con gli altri. Vorrei un percorso continuativo per ricreare un tessuto di condivisione di un percorso artistico. Me ne ero andata via da Russi e, dopo aver fatto un percorso altissimo con Leo de Bernardinis, sentivo dentro di me che volevo misurarlo con la vita quotidiana. È come se volessi pagare un debito con la mia terra provando a costruire. Abbiamo riaperto dei luoghi ma non basta: c’è bisogno che quei luoghi siano pieni di gente che crede nella creatività aperta al mondo. Non vogliamo creare delle isole. È molto importante viaggiare, vedere cosa c’è nel mondo e ricostruirlo nei propri luoghi di appartenenza e avere il desiderio di creare luoghi di alta creazione al di là delle città. Non vorrei vedere delle città sovraccariche di segnali in un deserto. Il nostro è un piccolo paese che dovrebbe essere collegato in ogni angolo per la bellezza che produce. Ogni luogo è un palcoscenico. La sensazione condivisa è che alcuni fanno un lavoro di sensibilizzazione e che spesso vince la politica degli scambi: spesso si preferisce far esibire un personaggio televisivo per non affaticarsi troppo, andando incontro al pubblico. Non sempre tuttavia il pubblico resta soddisfatto. Siamo in un momento di imbarbarimento dovuto anche a una perdita di contatto con gli ambienti culturali. Sarebbe bene lavorare sulla formazione del pubblico e sulla divulgazione dei linguaggi sottili e del potere».
Il teatro quindi è una forma di istruzione, un’ambito della conoscenza, secondo lei?
«Il teatro affronta degli argomenti che l’informazione e il giornalismo non affrontano più. È come se dovessimo fare un salvataggio da arca di Noè; è un momento molto delicato per salvaguardare la cultura nelle sue mille sfumature. È un processo che va di pari passo: la perdita delle specie animali e vegetali con la perdita delle mille sfumature dei linguaggi artistici. La bellezza è nella molteplicità ed è lì il suo mistero».
Quali sono i suoi progetti artistici futuri? Su cosa sta lavorando?
«Ho moltissimi progetti diversi e grazie a queste collaborazioni riesco a moltiplicare gli incontri e questo mi piace tantissimo. A breve riprenderemo i lavori La canzone di Giasone e Medea e Nella lingua e nella spada (ispirato alle vite e alle opere di Oriana Fallaci e di Aléxandros Panagulis, ndr) per portarli nel tempio di Segesta. Riprendo il lavoro su Laura Betti che si chiama Bimba. Riallestiremo Risate di gioia, spettacolo che è dedicato alla memoria degli attori. Insieme ad Angela Malfitano riprenderò il lavoro Per magia. In mezzo a questo fiume di progetti ci sarà anche un lavoro su Ibsen, La casa dei Rosmer, che debutterà nel 2024, che parla di che cosa significa conservare e che cosa significa rinnovare. Avere memoria del passato non significa fermare la storia ma evolverne le esperienze, i contenuti e le rifrazioni. Ogni volta dobbiamo nutrirci del passato e trasformarlo. Dunque, riprendiamo gli spettacoli già fatti tenendoli in vita e allo stesso tempo creiamo nuovi progetti. Spero che nell’autunno inizieremo il lavoro Il circolo delle arti per poi arrivare a una apertura ufficiale dei laboratori nella primavera o nell’estate prossima».