Burri e Ravenna, tra riflessi dorati, cellotex e slabbrature esistenziali

Un approfondimento sulla mostra in corso fino al 14 gennaio al Mar, nell’ambito della Biennale del mosaico

burriravennaoro

burriravennaoro

Non sappiamo cosa passò per la testa di Alberto Burri nel campo di prigionia di Hereford in Texas, dove si trovava dal 1943 assieme a Giuseppe Berto e altri soldati catturati in Africa che dopo l’8 settembre avevano deciso di non cooperare. Irriducibili, in quei tre anni di detenzione sia Berto che Burri fecero la medesima scelta di rinunciare alla carriera di medico: il primo per scrivere, il secondo per dipingere. Nonostante il regime stretto di prigionia, Berto ricordava nei suoi scritti di aver potuto leggere Steinbeck ed Hemingway e di aver collaborato alla stesura di una rivista del campo in copia unica a cui collaboravano molti detenuti. Non si ha nessuna pista invece per capire le molle che spinsero Burri a intraprendere la strada della pittura nel contesto statunitense, segnato al tempo dalle potenti ricerche dell’espressionismo astratto e dall’Action Painting. Calcolando soprattutto l’urgenza informale dei primi lavori astratti di Burri – eseguiti dopo il suo ritorno in Italia – sarebbe interessante valutare il ventaglio di confronti e di sguardi scambiati con gli artisti americani – Motherwell, Rauschenberg ma anche Mark Tobey – e poi con i lavori – dei francesi e non – visti a Parigi nel 1948: Schwitters, Mirò di certo, ma anche Fautrier e di altri americani, probabilmente mediati in Francia e in Italia da Sebastian Matta.

La svolta che colloca l’arte di Burri nel panorama internazionale avviene nel 1949 quando – superato il primo figurativismo e la prima fase astratta – inizia a usare sacchi di juta stampati, cuciti, macchiati, slabbrati come materiale e sostanza del lavoro. Alla serie dei Sacchi seguiranno quelle dei Catrami e Muffe, poi i Legni e i Ferri, tutti contraddistinti da un’importante performatività del corpo dell’artista che dà fuoco e spegne, cuce e allenta, soffia e rompe, agendo fisicamente sui lavori con la stessa corporeità utilizzata ma in modo diverso da Pollock.

In mostra al Mar di Ravenna ci sono alcuni lavori di questa epoca – composizioni e sacchi dei primi anni ‘50 – in cui è già presente un accenno del colore oro che contraddistinguerà poi le serie dei lavori legati alla città bizantina.

Nelle prime sale in mostra spiccano un paio di esemplari delle copertine – che sembrano disegni di Arshile Gorky e Cy Twombly sottoposti a ordine classico – progettate fra il 1953-54 per i testi dell’amico poeta Emilio Villa che scrisse forse l’interpretazione più vicina al senso delle opere di Burri in questa fase: “un’interrogazione gessosa sulla vuota (piaga sangue) virtù e sul vuoto del mondo”. Una conferma di quell’esistenzialismo cinico e pessimista che accomunava quel paio di generazioni che – come osserva Torcellini in catalogo – aveva fatto la II guerra mondiale, assistito ai suoi orrori, all’Olocausto e allo sgancio di due bombe atomiche.

La fase successiva dei Cretti e delle Plastiche, opere in cui l’utilizzo del cellotex – un materiale industriale costituito da segatura, legno e colla pressati – da supporto inizia a prendere spazio fino a diventare uno dei materiali prediletti da Burri, è testimoniata a Ravenna con un bellissimo Cretto del 1973. Continua in questo decennio quella slabbratura esistenziale che è fatta di drammatica aridità: al posto della tensione emotiva ora l’opera d’arte si smaterializza in una sorta di silloge del proprio percorso posto in una cornice di rinnovata monumentalità. Quasi inutile citare il grande Cretto di Gibellina che è il vertice apicale di quel confronto che Burri apre col proprio lavoro e con la storia.

Occorre aspettare la fine degli anni ‘80 perchè inizi il rapporto con Ravenna con una mostra curata da Claudio Spadoni nella sala del refettorio del Museo Nazionale: Burri realizza per questa occasione la serie dei Neri a San Vitale – acrilico, cellotex e pietra pomice su tavola, in mostra al Mar – che continuano la linea intrapresa di monumentalità se pure in dimensioni contenute, enfatizzata dalle forme nette e dal collasso dei colori. In risposta ai cobalti dei cieli bizantini, Burri insegna a vedere la differenza dei neri in rapporto alla luce e alle variazioni quasi impercettibili delle texture in superficie che trasforma la pittura in una strada metafisica.

Il secondo appuntamento con Ravenna, vede Burri coinvolto in una serie di committenze programmate dalla Ferruzzi agli inizi degli anni ‘90, grazie alla mediazione di Francesco Moschini. Delle varie ipotesi programmate verrà eseguita solo la scultura monumentale del Grande Ferro R (1990), visibile al Pala De André ma presente in mostra con un modellino, che sviluppa l’idea di una scultura presentata alla Biennale di Venezia sei anni prima. Per Burri si tratta di un intervento su scala monumentale che teatralizza fortemente lo spazio in cui doveva collocarsi secondo il progetto iniziale.

La serie dei sei esemplari di Ravenna e Bisanzio – progettata nel 1991 e da collocarsi temporaneamente nelle vetrine dei portici urbani della Ferruzzi Finanziaria su via Diaz e vicolo degli Ariani per poi entrare a far parte di un progettato museo di arte contemporanea – non giungerà mai a Ravenna. In mostra sono solo i sei bozzetti preparatori che introducono la variante dell’inserimento dell’oro dato per frammentazione, come insieme di tessere musive.

L’eleganza dei neri e dell’oro viene ripreso da Burri in alcune serie fra il 1992-94: a Ravenna sono esposti alcuni esemplari del 1993 in cui la tessitura a mosaico viene sostituita da forme sinuose, finite, dettagliate, in una sintesi che evidenzia i valori di superficie e come in un mondo orientale ricompone vuoti e pieni in assenza di tensioni.

EROSANTEROS POLIS BILLBOARD 15 04 – 12 05 24
CONSAR BILLB 02 – 12 05 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24