mercoledì
25 Giugno 2025
l'intervista

Ilaria Gaspari: «La filosofia è ancora viva. E si occupa della vita reale»

La scrittrice milanese a Scrittura Festival: «I miei libri sono arrivati più lontani di quello che pensavo»

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Ilaria Gaspari
Foto di Chiara Stampacchia

Nata a Milano nel 1986, dopo il diploma al liceo classico si trasferisce a Pisa per studiare filosofia alla Normale e a Parigi per un dottorato alla Sorbonne nello stesso ambito. Ilaria Gaspari è più di una promessa della scena filosofica contemporenea. Non si definisce però una filosofa, ma una «scrittrice che ha studiato filosofia».

Nel 2015 pubblica il primo libro per Voland, Etica dell’acquario, un romanzo noir a cui sono seguiti Ragioni e sentimenti (Sonzogno, 2018). Lezioni di felicità, Vita segreta delle emozioni e Cenerentole e sorellastre (Einaudi 2019, 2021 e 2022). Oltre al lavoro da autrice, collabora con testate giornalistiche e podcast, conduce una trasmissione su Radio 3 e tiene corsi di scrittura alla Scuola Holden di Torino e all’Omero di Roma.

Gaspari sarà a Ravenna sabato 18 maggio (ore 21) in un dialogo con Gianni Gozzoli negli spazi della biblioteca Classense. L’autrice presenterà la sua ultima pubblicazione La reputazione nell’ambito di ScrittuRa Festival.

Cosa significa essere una filosofa al giorno d’oggi, dov’è la linea tra lo scrittore e il filosofo?
«È una domanda a cui non è semplice rispondere: il mio percorso di studi mi permette di poter spaziare tra diversi temi nella mia scrittura, interrogandomi sul senso delle parole e costruendo ragionamenti il più possibile complessi e articolati. Io per prima però non mi definirei una filosofa, ma una scrittrice che ha studiato filosofia. Quello che racconto nei miei libri attinge inevitabilmente dai miei studi: sia in ambito puramente narrativo, sia quando affronto tematiche relative alle emozioni e alla felicità, temi trasversali e comuni a tutti, ma propri del pensiero filosofico. La filosofia si occupa di questioni che non sono così distanti dalla vita reale, anche se dall’esterno si tende a pensare al contrario».

Il suo libro d’esordio, Etica dell’acquario (Voland, 2015) è romanzo noir, mentre le pubblicazioni successive sono più incentrate su una scrittura filosofica nel senso più tradizionale del termine. Questo cambio di stile è stato dettato dalla voglia di sperimentare o da una necessità?
«Lo definirei più un processo naturale. Personalmente, mi diverto molto di più a scrivere narrativa pura, credo sia un esercizio divertente e creativo. Ad un certo punto però, ho voluto provare a riprendere in mano ciò che avevo studiato durante gli anni dell’università e del dottorato, trasformandolo in un racconto. Una sorta di sperimentazione, volta a mettere in comunicazione filosofia e narrativa, anche con l’idea di tornare al romanzo con un “bagaglio” in più».

Possiamo dire che questo connubio tra narrativa e filosofia si rifà al mito greco o al romanzo filosofico illuminista?
«Assolutamente, partendo da Platone e passando per Montaigne, Nietzsche e Kierkegaard, il binomio tra racconto e filosofia è ben radicato nella storia, raggiungendo il suo apice durante l’illuminismo, tra gli scritti di Voltaire e Diderot. Non ho inventato nulla, e naturalmente non mi sto paragonando a nessuno dei citati: penso solo che il romanzo filosofico sia un genere ben definito, di cui si ha oggi molto bisogno. Abbiamo bisogno di capire quanto la filosofia sia viva ancora oggi e quanto sia essenziale per rivolgere sguardi più complessi a ciò che ci circonda».

La sua ultima pubblicazione La Reputazione (Guanda, 2024) è appunto un ritorno alla narrativa, senza mancare però di sottotesti di carattere più filosofico. Può dirci qualcosa sul romanzo?
WhatsApp Image 2024 05 15 At 16.57.45«Ho scritto questa storia ispirandomi a un fatto di cronaca francese di fine anni 60, ambientato a Orleans. In quegli anni in Francia iniziavano ad aprire i primi negozi di abbigliamento dedicati alla moda adolescenziale. Queste attività però non erano viste di buon occhio, anzi, giravano spesso voci al riguardo di ragazzine scomparse, anche se si trattava per lo più di calunnia antisemita. La mia storia è ambientata all’interno di Josephine, un atelier di Roma dei primi anni ’80. A gestire il negozio, la francese Marie-France e il socio ebreo-romano Giosuè. Gli affari nella capitale vanno a gonfie vele, fino all’improvviso susseguirsi di strani avvenimenti, accompagnati da spietate dicerie. Ad accompagnare la trama, una riflessione sul peso dello sguardo e delle parole degli altri nei confronti della nostra identità. Dopotutto, il negozio di vestiti è un luogo che si frequenta per riscrivere la propria immagine, e dove il desiderio di apparire in un certo modo si sovrappone alla realtà della nostra apparenza».

La sua produzione editoriale è serrata e sorprendente, come riesce a mantenere questi ritmi di scrittura?
«Sono molto veloce e ho tante idee, anzi, forse troppe. Realizzo un decimo delle cose che penso. La mia fortuna è quella di riuscire a scrivere nelle situazioni più disparate: in treno, in albergo, in qualsiasi luogo… sono in grado di dormire e scrivere dappertutto! Vivo la scrittura come un processo del tutto istintivo, non ho mai sperimentato un “blocco dello scrittore”, anche se so che prima o poi accadrà. Scrivo di getto, senza troppe revisioni: in questi anni ho avuto anche modo di incontrare ottimi editor, puntuali nelle indicazioni senza mai essere invadenti nella correzione. Sulla lingua però sono molto attenta, revisiono l’uso delle parole in maniera quasi maniacale».

Oltre al lavoro di autrice, anche quello di docente di scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino e all’Omero di Roma. Come funziona il lavoro di writing coach?
«Non avendo mai frequentato scuole di scrittura prima di questi incarichi, ho dovuto inventarmi un metodo basato sulla mia esperienza. Nelle mie lezioni non mi concentro sugli aspetti tecnici della scrittura, quanto su quelli psicologici, cercando di fare un lavoro personalizzato. Indago le loro motivazioni, cercando di capire cosa vogliono trasmettere con le loro opere. Credo che “insegnare a scrivere” sia una cosa impossibile. Nessuno diventa scrittore se non prova già una forte inclinazione dentro di sé. Si può insegnare però come trattare un argomento specifico e soprattutto, come leggere davvero».

Qual è invece il rapporto tra una filosofa contemporanea e i social network?
«Una relazione molto naïf, anche perché li trovo un’arma a doppio taglio. Se da un lato sono utili per veicolare notizie e informazioni, anche in ambito lavorativo, dall’altro sono in grado di promuovere forme di conformismo, di misurare il gradimento degli altri e di spingere a una costante ricerca di prestigio e adulazione. Uso i miei profili come diario, cercando di sfruttare le opportunità artistiche e narrative delle piattaforme per costruire un’immagine che mi rispecchi nel modo più reale possibile. Quando comunico sui social cerco comunque di andare in profondità, spostando l’attenzione dal personale a una riflessione universale».

Se sui social network esporsi può diventare un’arma a doppio taglio, l’ambiente culturale è comunemente percepito come una dimensione aperta e all’avanguardia. Ha mai riscontrato invece qualche difficoltà in quanto donna in ambito accademico e lavorativo?
«Ovviamente sì, e tante. Il mio modo di affrontare gli ostacoli di questa natura è semplice: li ignoro e non mi lascio scoraggiare. Questo secondo me è un grande gesto femminista. Sono una donna molto sorridente, e a una prima occhiata potrei sembrare un’oca giuliva. Molti pensano che sia proprio così, ma a me non importa. Da giovane ho provato ad addomesticare il mio lato più entusiasta e gentile per cercare di corrispondere a un’immagine più austera, ma non sono fatta per interpretare un personaggio: sono proprio la ricerca di libertà e emancipazione a guidare il mio lavoro, e non voglio indossare maschere. Da quando ho capito che i pregiudizi feriscono più chi li pensa che chi li subisce, non nascondo più il mio lato frivolo».

In una vecchia intervista sosteneva di aver perso tanto tempo nella tua vita, sente di starne perdendo ancora?
«Oggi in realtà ho tanta nostalgia di quel tempo perduto. Negli ultimi anni, i miei libri sono arrivati più lontani di ciò che pensavo, questo mi rende felice, ma aumenta il carico dei miei impegni, con un lavoro di conferenziera nato un po’ dal nulla. Sono arrivata dove volevo arrivare: nelle scuole, nelle biblioteche, nei centri della cultura, ma sono sempre in viaggio, non ho ancora imparato come risparmiarmi. È come se oggi avessi trovato dei “nuovi modi” di perdere tempo, ma il tempo perso in passato è stato estremamente utile per darmi le energie per vivere questa nuova fase. Credo che la perdita di tempo sia una vera e propria esigenza nella vita di un creativo, anche se è un lusso che si possono permettere in pochi, e spesso con grandi sacrifici».

Cosa vede nel suo futuro?
«Una maggiore saggezza nel gestire il mio tempo e le mie energie. Non so per quanto potrò continuare a correre così tanto! Per il resto libri, tanti libri, e la possibilità di poter portare sempre di più la mia esperienza e il mio lavoro dove più ce n’è bisogno, come all’interno delle carceri. I contribuiti che posso dare alla società sono le mie parole, le mie storie, e voglio metterle a disposizione di chi ne ha necessità».

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