Nell’attesa di SeR, lo spettacolo diretto e interpretato da Sergio Bernal in scena al Pala De Andrè stasera (lunedì 1 luglio), nell’ambito del Ravenna Festival, l’icona internazionale della danza si racconta in questa intervista, tra sogni, arte e un invito ai giovani ravennati.
Una voce pacata e gentile, dall’intonazione aperta e disponibile, con la semplicità e l’assenza totale di pose di chi affida ogni dimostrazione di valore al proprio talento: Sergio Bernal è una star internazionale della danza ed è un giovane uomo che pone al centro del processo creativo il potenziale espressivo della persona, ancor prima che dell’artista.
Madrileno, classe 1990, già primo ballerino del Balletto Nazionale di Spagna, Bernal si è fatto amare per il suo rigore e la sua versatilità: un’impeccabile tecnica nella danza classica e tutta la potenza incendiaria del flamenco fanno di lui un originale connubio di vocazioni in apparenza opposte che, dalle sue stesse parole, possono non solo convivere, ma potenziarsi a vicenda.
SeR è la seconda produzione con la compagnia che hai fondato nel 2019 e che porterai in prima italiana al Ravenna Festival 2024: ci racconti com’è nato il concept di questo lavoro?
«Nel pieno della pandemia: tutti eravamo a casa, ed eravamo senza libertà. Era un momento molto triste e, per via del lockdown, avevo dovuto interrompere un progetto appena avviato. Così, mentre ero fermo a casa, ho pensato a lungo a un progetto per il momento in cui finalmente avrebbero riaperto i teatri, e lo immaginavo come un viaggio di emozioni, di bellezza, di anima e di allegria per ritornare alla vita».
Nello spettacolo hai convogliato anche elementi che appartengono ancor di più al tuo privato?
«Praticamente è una playlist della mia vita, da quando ero bambino a oggi, con musica più popolare, come quella di Beyoncé e Stromae, per coinvolgere anche i ragazzi giovani a cui sino ad ora non è piaciuto il teatro e che così potranno vedere uno spettacolo di qualità, la cui colonna vertebrale è la danza. Però poi ci sono anche musiche colte, come quella di Max Richter; autori classici come Vivaldi e Saint-Saëns, o il flamenco. Il mio è un invito ai giovani che pensano di non sapere niente; è come dire: “Ragazzi, siamo tutti nello stesso mondo… venite a vedere la danza!”».
E come convivono in te le differenti “anime” di classico, contemporaneo e flamenco?
«Un ballerino è un ballerino e prima è una persona. Dentro il nostro cuore, le nostre emozioni, abbiamo tristezza, forza, allegria, pena… Il flamenco parla più di tristezza, forza e dolore; il classico invece è più allegro, più estetico. Se sono una persona, prima di essere un ballerino, devo esprimere tutte queste sfumature: così ho preso la bellezza del classico e la durezza del flamenco per mettere tutto insieme. Puoi fare una piroetta con la mezza punta o con la scarpa da flamenco e alla fine la differenza è data dalle emozioni che possono convivere nello stesso spettacolo».
Parliamo di sogni: uno, realizzato, era di incontrare Baryshnikov. Qual è il prossimo?
«Uno spettacolo sulla vita di Yves Saint Laurent, perché ha avuto un’esistenza pazzesca e una carriera meravigliosa, da portare assolutamente sul palcoscenico. Saint Laurent porta con sé una bellezza incredibile: arriva dall’Algeria a Parigi e scopre un mondo impensabile. Io ho vissuto un po’ la stessa esperienza: provengo da un quartiere povero di Madrid e ho raggiunto un mondo bellissimo, dove ho incontrato il pubblico e il palcoscenico».
A proposito di esperienze fuori dall’ordinario: come racconteresti la tua vita di giovane star internazionale della danza?
«Abbiamo tante soddisfazioni e passiamo anche molto tempo da soli: si viaggia tanto, Londra, Parigi, New York… Una grande responsabilità, perché la gente si aspetta sempre il meglio da te e tu vorresti sempre dare il massimo. Dopo lo spettacolo, quando è andato tutto bene, è una grande felicità, ma è un lavoro molto duro: sul corpo, sulla forma, sulla disciplina».
Il tuo incontro con la danza: quando hai capito che volevi e potevi renderlo un mestiere?
«Subito all’inizio: ho capito che questo era il mio linguaggio espressivo, senza farmi domande. Ho pensato: “Voglio fare questo” e l’ho fatto».
Cosa ti piacerebbe scrivessero di te in un libro si storia della danza del 2124?
«Vorrei mi descrivessero come una persona che ha emozionato e creato bellezza per tanti anni nella sua vita, una persona che ha colpito il cuore della gente. Come Michael Jackson: anche se ha avuto tanti problemi, la sua opera vive ancora e la sua musica è incredibile».
Hai un modello che ha ispirato la tua pratica artistica e per cosa, invece, senti tu di poter essere un modello rispetto ai giovani danzatori che si stanno formando ora?
«Baryshnikov per me è stato sempre un modello, nel suo percorso e nella sua modalità creativa. Io vorrei fare lo stesso, mettendo insieme la danza classica e il flamenco: vorrei creare un percorso per i giovani danzatori che arricchisca il loro linguaggio facendoli spaziare anche verso il contemporaneo»
Hai un desiderio nei confronti del pubblico?
«Vorrei far conoscere la cultura spagnola al pubblico italiano: come stile di vita siamo moto simili, ma ci sono anche delle differenze. Come viviamo la vita in strada, con la gente, la festa, l’allegria, ma anche la tristezza e il dolore. Vorrei far conoscere la Spagna più autentica, la sua anima, con tutta la naturalezza e la forza che la contraddistinguono».