lunedì
16 Giugno 2025
hip hop

Dieci anni di Under Fest, termometro prezioso della scena rap nazionale

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Anteprima sabato 20 a Campiano con Willie Peyote e arriva anche l’unica data in Romagna per i decani newyorkesi Onyx

ONYX
Gli americani Onyx (fotografia di Eric Anders)

Per iniziare a scrivere della decima edizione di Under Fest ho provato a fare un esercizio del tutto inutile e forse perfino dannoso, ma che non sono riuscito in qualche modo ad evitare: mettere a confronto la classifica FIMI dei singoli attualmente in corso con quella di dieci anni fa. Quella attualmente in vigore: Tony Effe, Anna (4 pezzi in top ten con diversi guest) Emis Killa, Rose Villain, Ghali; l’unico pezzo senza un rapper in top ten è il nuovo singolo Annalisa/Tananai. Nella settimana di novembre 2013, quando questa storia inizia, il rap era già raccontato come la principale risorsa dell’industria musicale, ma la top ten dei singoli non conteneva nessun rapper italiano: Mika, Miley Cyrus, Ellie Goulding, Robbie Williams, Elisa, Lorde, Lana Del Rey (c’era Eminem assieme a Rihanna, questo sì).

Dicevo appunto: un esercizio inutile e forse dannoso, giusto per misurare in soldoni il modo in cui a volte l’aria tira da una parte e a volte tira dall’altra. Un altro esercizio potrebbe essere, non so, dare una controllata a quanti artisti listati nel poster del primo Under Fest sono presenti nell’edizione che partirà al Peter Pan il prossimo 23 luglio. È un po’ difficile perché si perde il conto, che comincia ovviamente con la struttura base del fest, e quindi Moder e Dima e Nersone e tutto il resto, poi una serie di cerchi concentrici fatti di amici di lunghissimo corso e nomi che, semplicemente, continuano a suonare da queste parti (Claver Gold, Murubutu, Kyodo, Willie Peyote, Egreen). Verso il decimo nome si inizia a perdere il conto. Se consideriamo anche la seconda edizione, quella con Kaos e altri, la lista si allunga ulteriormente.

Egreen
Egreen

È una sensazione strana, di qualcosa che rimane impermeabile alle logiche del tempo e dello spazio e si aggrappa con le unghie alle due o tre certezze che è riuscito a maturare nel frattempo. L’idea che la musica spenda tempo ed energia per rimanere quanto più possibile uguale a se stessa è un’idea che i fanatici di musica associano spesso al fallimento: fai le due o tre cose che sei capace di fare, inviti i due-tre nomi che sai di poter invitare, abiti la tua campana di vetro e non ti poni i problemi. Il tuo passato è il tuo presente e intanto il futuro continua a sfilarti davanti (è un’approssimazione stupida di un festival di ricerca come Under, ma state con me ancora un secondo). La cultura rap italiana non ha ancora rimarginato del tutto la frattura tra chi è disposto a far tutto quel che serve per incrementare il proprio valore di mercato, così da arrivare con la propria cosa a quanta più gente possibile, e chi rifiuta categoricamente qualunque cosa gli tolga il tempo, l’energia e la dedizione che serve a coltivare il proprio campo. Se metti giù i ragionamenti su un foglio di carta riesci a dimostrare che entrambi gli approcci sono giusti, o sbagliati. Ma per farlo devi togliere di mezzo i dettagli, la complessità del presente e i milioni di esperienze che servono a tutta una comunità musicale per arrivare in un certo posto.

Murubutu
Murubutu

Provate a pensare a un festival musicale come a quelle strisce di vernice che trovate sugli alberi nei sentieri di montagna, quelle cose che servono ad orientarsi e non perdere il tragitto. Chi le ha dipinte? Quando l’ha fatto? Arrivi nel posto seguendo un percorso tracciato di qualcun altro, ma il percorso si forma anche a furia di pestare lo stesso pezzo di terra con gli scarponi. E bastano due o tre escursioni come si deve a capire che la fatica non l’hai fatta per vedere la cascata alla fine del percorso. Non solo, perlomeno. Nelle serate di Under a cui sono stato negli ultimi anni la complessità delle situazioni mi ha colpito molto più della musica. Aiuta forse una location come il Peter Pan, un posto un po’ meticcio in cui il sentimento è sempre a metà tra qualcosa di ultra-ravennate e una bizzarra tensione globalista, in cui è normalissimo trovarsi di fianco a totali neofiti o maniaci musicali all’ultimo stadio.

Passeggi e vedi la gente, ci sono ragazzini e vecchi bacucchi, uno accanto all’altro, respirano l’aria e ascoltano la musica, assorbono quel che è lecito e lasciano nel posto tutto quel che non fa per loro. Dei due approcci di cui sopra, Under è decisamente dedito a coltivare il proprio campo. Ma è un campo che da molto tempo produce raccolti copiosi e che tutti possono consumare a volontà, che continua a ruotare le colture e sperimentare (la selezione Cypher, dedicata ai nuovi artisti), e a cui contribuisce un po’ tutto quel che succede. Torno all’inizio dell’articolo, se non vi dispiace. Non sappiamo cosa succederà tra dieci anni alla musica popolare: forse l’hip hop sarà ancora sulla cresta dell’onda, forse sarà la vittima di una crisi di rigetto, forse sarà integrato a tutto il resto in modo organico. Non credo che, in nessuno dei tre casi, la cosa avrà un effetto sul lavoro dei ragazzi del CISIM e di Under Fest – c’erano prima, ci sono adesso, ci saranno dopo.

Il programma completo di Under Fest è qui

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