«Se Dante Alighieri tornasse a trovarci, potrebbe querelare. L’eloquenza non è più volgare, e le persone volgari non sono eloquenti. […] La volgarità si è allontanata dall’etimologia, il popolo non c’entra più. La volgarità contemporanea è prevedibile e ripetitiva. Una forma contagiosa di scarlattina verbale, un tentativo di accodarsi alla carovana della maggioranza».
Con queste parole Beppe Severgnini commenta il suo prossimo intervento a Prospettiva Dante, la rassegna dedicata al Poeta (qui il programma) che vedrà ospite il giornalista e scrittore domenica 15 settembre (ore 11) in occasione della chiusura del festival agli Antichi Chiostri Francescani. Severgnini, nato a Crema nel 1956, è editorialista del Corriere della Sera dal 1995 e, dal 2013 al 2021, è stato opinionista per il New York Times. Oltre all’attività giornalistica, conta diverse pubblicazioni letterarie e collaborazioni in radio e televisione, prestando sempre attenzione allo studio del linguaggio e delle tecniche di comunicazione.
Per la chiusura di Prospettiva Dante porterà una riflessione sul volgare di ieri e quello di oggi, cosa dobbiamo aspettarci?
«Credo che chi parteciperà all’incontro abbia chiara la differenza tra il volgare di Dante e quello che noi oggi intendiamo per volgare. Quello di Dante è a suo modo nobile, un vero colpo di genio per avvicinarsi al popolo. Oggi però il volgare non è più del popolo, non ha classe di reddito, età o provenienza, è mera maleducazione. La comunicazione è cambiata, se un tempo la volgarità era una forma di trasgressione, cosa che la impreziosiva e le dava forza, oggi è ridicola banalità. Riesco a essere indulgente solo nei confronti degli adolescenti: per loro è un rito di passaggio, la rottura di un tabù».
La comunicazione è cambiata, quindi anche il giornalismo?
«Completamente. Il vero punto di rottura in questo caso è stato internet. Ho iniziato a fare il giornalista 40 anni fa, quando i pezzi si battevano sulle macchine da scrivere, i comunicati si dettavano al telefono, e ogni sera si componevano le lastre al piombo per la stampa. Per certi versi, fare il giornalista nel ‘34 o nell’84 era praticamente la stessa cosa. Internet ha segnato un prima e un dopo, un approccio diverso alla notizia, ha richiesto una maggiore velocità e produttività nella scrittura e una particolare predisposizione all’adattamento ai diversi tipi di media. La mia fortuna è stato capirlo subito».
Quanto è importante oggi la trasversalità mediatica?
«Fondamentale, e credo che la mia carriera e la mia attività ne siano la prova: ho pubblicato 20 libri, ho imparato a scrivere in inglese, a parlare davanti a un microfono, come muovermi davanti a una telecamera, come girare un video. Non l’ho fatto per vezzo, ma perché tutto ciò è necessario per fare il giornalista nel ventunesimo secolo».
Cos’è invece che in tanti anni non è cambiato (e forse non cambierà mai)?
«Che se uno ha davvero qualcosa da dire, il modo lo trova. La pluralità di media è una grande opportunità da questo punto di vista, perché offre diverse possibilità di espressione. L’importante però è avere qualcosa da dire, e di farlo possibilmente in modo non volgare, cosa che oggi non è così scontata, soprattutto per diversi influencer o personaggi di spicco di social e tv…».
A proposito di social, che ruolo hanno nella comunicazione contemporanea?
«Un ruolo fin troppo importante, è come se il giornalista fosse stato scavalcato dall’algoritmo. I social, così come Google, non valutano le notizie in base alla loro importanza, o veridicità, ma in termini di engagement. Questo porta la proliferazione di una comunicazione inutilmente scandalistica, impoverita nei contenuti e spesso faziosa e grottesca, in grado di creare una bolla attorno al lettore e radicarlo nelle sue convinzioni, a prescindere da quanto deliranti siano».
Un consiglio che vorrebbe dare a un giovane giornalista, scrittore o divulgatore alle prese con le dinamiche di comunicazione contemporanee?
«Di preoccuparsi sempre prima del contenuto, la forma si impara col tempo. Comunicare non vuol dire lanciare frecce in giro per la stanza, ma centrare il bersaglio. Prima si mette a fuoco ciò che si vuole dire poi si pensa al media più adatto per esprimerlo e alla forma più raffinata per farlo. Dopo aver parlato a Oxford o Harward mi sono accorto che la conferenza più difficile che abbia mai tenuto è stata quella all’asilo nido di mia nipote Agata. Un discorso di 50 minuti in occasione della “Giornata dei Nonni”. Non avevo idea di come tenere l’attenzione di un pubblico di due anni e mezzo ma, prima ancora di preoccuparmi del tono di voce da usare, mi sono informato su cosa piacesse loro: oggetti? Animali? Su quello ho basato tutto l’incontro, ed è stato un successo. Questo non fa di me un super nonno, anche se sarebbe il mio sogno, ma un attento comunicatore. Corriere, Londra, Milano, Prospettiva Dante o asilo Nido del Sole, l’atteggiamento non cambia, il contenuto e il ragionamento devono restare al primo posto».